Dormono, dormono sulla collina come i personaggi della Spoon River di Edgar Lee Masters cui Fabrizio De Andrè dette voce musicale. Ma la collina in questo caso è rivolta verso il basso, è una sacca verso il buio. Quella in cui 335 esseri umani, il 24 marzo del 1944, ottant’anni fa, persero ciò che restava della loro vita dopo giorni e ore di sevizie nel girone infernale di Via Tasso a Roma. Uomini che rientrarono nel gruppo selezionato da Kappler per vendicare i 33 soldati (che non erano i componenti di una innocua banda musicale, come sostenuto con una leggerezza agghiacciante dal presidente del Senato La Russa qualche mese fa) del battaglione tedesco “Bozen” che persero la vita nell’attentato gappista di Via Rasella.
Dormono sulla collina ma prima di essere distrutti dalle torture nell’anima e nel corpo, finiti con un colpo di pistola alla testa e gettati nella collina al contrario come sacchi della spazzatura, quegli uomini correvano, sognavano, salivano lungo i sentieri di montagna, pedalavano. Molti di loro avevano passioni sportive che coltivavano: qualcuno perché se lo poteva permettere, qualcuno nella speranza di guadagnare qualche lira, qualcun altro perché l’attività sportiva era un perfetto complemento alla sua occupazione.
Disegnare un tracciato fra gli sportivi che hanno perso la vita alla Fosse Ardeatine non è una mancanza di rispetto per gli altri: Anzi. È un modo per illuminare la vita di tutte le 335 vittime. Perché nulla più dello sport ha le fattezze di un paradigma della vita, nulla sublima meglio le più profonde aspirazioni dell’essere umano dando loro una vesta ludica, libera, spesso gioiosa. Gli uomini, profondamente diversi fra loro, che avevano passioni sportive e che persero la vita quel 24 di marzo sono un’avanguardia che ci fissa negli occhi. La loro voglia di vivere, di gareggiare, di giocare si trasforma nel simbolo del sacrificio di tutte le vittime. E rende il pensiero di quanto successe ancora più insopportabile. Immaginiamoli, questi uomini simbolo, grazie soprattutto all’encomiabile lavoro di Mario Avagliano e Marco Palmieri che hanno curato il libro “Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine” edito da Einaudi, come in un affresco multiquadro in cui tutti fanno parte di un unico girone dal quale ci inviano un messaggio: difendete la libertà di cui lo sport è un sublimato felice. Ad ogni costo.
Al centro dell’affresco ci sono due uomini concentrati davanti ad una scacchiera. A ben vedere proprio quell’alternanza di caselle bianche e nere rappresenta la vita e le passioni di ciascuno, in cui anche la più allenata capacità di prevedere le mosse altrui può essere beffata da un avversario più bravo o forse unto dalla buona sorte. Ad un lato della scacchiera c’è Pilo Albertelli da Parma, un uomo di lettere e filosofia che si era formato studiando Platone, Benedetto Croce e Piero Gobetti. Amava pure andare in bicicletta, Pilo. Fra i due, toccherà a lui la tragica fine alle Fosse Ardeatine, ma qui lo immaginiamo all’inizio dell’intensa amicizia che lo legò a Ugo La Malfa, che infatti è dall’altro lato della scacchiera. Giocano la loro partita come erano soliti fare nella cella del carcere di San Vittore nel 1928 quando furono arrestati perché antifascisti. I due giocano e intanto parlano, come ricorda La Malfa, “di filosofia e di politica, del mondo, degli uomini, delle cose”. I due collaboreranno nel 1942 alla fondazione del Partito d’Azione. Nella pensione Oltremare, a lui che da buon ciclista dilettante sapeva cosa vuol dire cercare di cadere bene quando non era possibile evitarlo, furono fasciate braccia e gambe e lasciato cadere dall’alto più e più volte per indurlo a pronunciare i nomi dei suoi compagni. Soddisfazione che lui come tutti i protagonisti di questa storia, non concesse ai suoi aguzzini.
Pilo alza lo sguardo dalla scacchiera e si rivolge verso un punto lontano dell’affresco dove un’altra coppia di persone si scruta negli occhi. Uno è Aldo Finzi, l’altro Manlio Gelsomini.
Chissà se i loro sguardi si sono davvero incrociati per un attimo mentre la loro vita stava per finire. Finzi era fascista, fascistissimo. Aveva aderito al movimento di Mussolini nel ’20 e aveva pure preso parte alla marcia su Roma. Non solo. Era stato fortemente indiziato di essere, con Cesare Rossi, il mandante del sequestro e dell’omicidio di Giacomo Matteotti. Il suo è un fascismo futurista nel senso che ama la velocità: il fratello Gino nel ’21 vinse la Targa Florio in sella ad una Guzzi e lui, Aldo, la Guzzi l’aveva condotta per primo nel mondo delle corse prendendo parte alla Milano-Napoli. Nel ’12 e nel ‘13 si era piazzato al secondo e al terzo posto nel campionato italiano delle mezzolitro. Aveva volato su Vienna con D’Annunzio. E nel’23 divenne presidente del Coni. In qualità di membro della Società Ginnastica Roma, Manlio Gelsomini certamente durante un qualche raduno aveva avuto modo di vedere, magari da lontano (pure lui aveva aderito al primo fascismo) il presidente del Comitato Olimpico. Lui che il sogno a cinque cerchi lo coltivava in ogni momento delle sue giornate visto che la sua era la disciplina regina dei Giochi: l’atletica. Un Mennea ante litteram: nel ’28 si era laureato campione universitario dei 100 e negli anni a venire girava per i meeting d’Europa dove si era guadagnato il soprannome di “Fulmine del Duce”. Conclusa la carriera in pista si dedicò al rugby con la maglia della Lazio. Per continuare a correre. Entrambi dopo l’8 settembre e per vie diverse, dopo aver rotto col fascismo combatterono contro i tedeschi a Roma: Gelsomini cambiò il suo nomignolo nel nome di battaglia “Ruggiero Fiamma”. Entrambi furono torturati a via Tasso e uccisi alle Ardeatine.
Nel nostro affresco immaginario, l’appassionato di motori Finzi guarda anche verso Giuseppe Celani. Famiglia nobile e ricca la sua. Con una grande passione per l’automobilismo. Nel 1930 aveva vinto la Coppa del Cimino, una “piccola” Mille Miglia che si disputa per la prima volta nel viterbese a bordo una Alfa Romeo 6C, una vettura parente di quella che in quello stesso anno Luigi Scarfiotti pilotava alla Mille Miglia vinta da Tazio Nuvolari. Il Conte Peppino nasconde dietro il suo atteggiamento da bon vivant (lo accusano pure di essere un cocainomane) i suoi rapporti con la galassia antifascista e dopo il ’43 tiene i rapporti fra diversi gruppi partigiani. Come? In moto, naturalmente. Ma tanta capacità di andare veloce e gestire i rischi non gli evita l’arresto, lui che in qualità di ispettore capo dei servizi annonari aveva distribuito tessere false ai partigiani. Lo arrestano e forse per sottoporlo ad una sorta di nemesi malata della sua vita gentilizia lo costringono, fra le tante torture, a trasportare enormi massi, come Sisifo. Quando gli assestano il colpo assassino alle Ardeatine non colpiscono il capo ma le vertebre cervicali e per questo motivo assai probabilmente non è morto subito. Le vertebre cervicali: uno dei punti più delicati e più protetti per chi corre in auto e in moto. Oggi come allora. Accanto a lui, nel nostro affresco c’è Marcello Bucchi, anche lui appassionatissimo di moto e pure di equitazione. E con loro, a chiacchierare di vita e motori, c’è anche l’amico Don Giuseppe Morosini che fu invece fucilato a Forte Bravetta e che avrebbe ispirato a Roberto Rossellini la figura di Don Pietro, il sacerdote interpretato da Aldo Fabrizi in “Roma città aperta”.
In basso nell’affresco, dove scorre un fiume, c’è Sabato Martelli Castaldi. Un militare di carriera che nel 1919 aveva preso parte come volontario alla campagna di Libia. C’è il fiume perché il suo nome di battaglia durante la Resistenza è Tevere. Non un caso perché come spesso succede è ciò che della vita amiamo a connotarci, talvolta perfino a darci un nome. E sul Tevere il sabato ci trascorreva le ore più felici. Socio del circolo Canottieri Aniene, era un grande appassionato di canottaggio. Vinceva pure, come testimoniano gli albi d’oro delle Coppe Juventus e Principe Amedeo. Era fascista ma caduto in disgrazia agli occhi dei gerarchi. Il 9 settembre del ’43 era al fianco di Emilio Lussu e Sandro Pertini a Porta San Paolo per tentare di impedire ai tedeschi di entrare a Roma. Chissà se fu la capacità di alzare il livello di sopportazione della fatica e della sofferenza, che ben conosce chi voga sui fiumi e sulle acque dei bacini artificiali, a dargli la forza di reagire (come lui stesso comunicò alla moglie su fogli scritti con succo di limone che apparivano bianchi ai censori) con un “pernacchione” agli aguzzini che gli percuotevano le piante dei piedi.
Chiudiamo il cerchio. Ci sono altri due “personaggi” in questo quadro. Hanno il naso schiacciato e sono l’uno davanti all’altro, si studiano. Sono due pugili. Uno si chiama Giovanni Angelucci ed è macellaio a Trastevere. L’altro è Lazzaro Anticoli soprannominato Bucefalo, un venditore ambulante ebreo. Sua madre si chiama Fortunata Efrati ed è la sorella di Leone Efrati detto Lelletto, il pugile più famoso di Roma. Lo chiamano “la Piuma del ghetto”. Aveva entusiasmato la città e non solo quando nel ’38 era andato negli Stati Uniti per tentare la conquista del mondiale dei pesi piuma contro Leo Rodak. Era il 28 dicembre e nel mondo ancora circolavano gli echi di cosa era successo a giugno dello stesso anno quando il pugile idolo di Hitler Max Schmeling al Madison Squadre Garden era salito sul ring per la seconda volta in carriera contro il nero Joe Louis, da lui battuto sorprendentemente due anni prima. Louis l’aveva spedito al tappeto e all’ospedale alla prima ripresa. Lelletto perse e tornò in Italia. Finì ad Auschwitz da cui non fece ritorno. Lazzaro Anticoli era figlio di Fortunata Efrati. Prometteva benissimo ed era figlio pure di Trastevere, il luogo di Roma dove il pugilato era linguaggio e spettacolo quotidiano. Me nel ’38 le leggi razziali gli stoppano la carriera. È in clandestinità e sfugge alla retata del 16 ottobre. Ma il 24 marzo del ’44 viene arrestato, come circa 50 suoi correligionari, grazie alla delazione di Celeste Di Porto, l’ebrea che vendeva gli ebrei, l’antitesi omonima di quella Elena di Porto, la matta di Piazza Giudia, che nelle ore precedenti il 16 ottobre del ’43 tentò di avvertire gli abitanti del ghetto che sarebbero arrivati i tedeschi. E dopo il saluto “segnaletico” che Celeste gli rivolse, Bucefalo vinse l’ultimo match della sua vita picchiando a sangue i tre sicari della banda Cialli Mezzaroma che lo stanno arrestando. Li lasciò a terra davanti al Ministero di Grazia e Giustizia ma non riuscì a evitare che altri sei fascisti lo fermassero poco lontano. Bucefalo non era nella lista Kappler degli uomini da uccidere alla Ardeatine: ma all’ultimo momento fu inserito in sostituzione di Angelo Di Porto, fratello della ebrea che vendeva gli ebrei. Sul muro della cella di Regina Coeli lasciò scritto: “Sono Anticoli Lazzaro detto Bucefalo, pugilatore. Se non arrivedo la famija mia è colpa di quella venduta de Celeste. Arivendicatemi”.
Guardiamo l’affresco da lontano. Ha assunto i connotati di un trionfo della Morte di Bruegel. Quegli uomini ci guardano e non parlano ma non dormono, come cantava De Andrè. Hanno occhi aperti che ci dicono: non siamo voi. Avremmo potuto essere voi. Potremmo essere voi. Loro ci avvertono.
Piero Valesio è nato a Torino 61 anni fa. Giornalista dal 1985 ha seguito Olimpiadi e grandi eventi sportivi per il quotidiano Tuttosport. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e curato la comunicazione degli Internazionali di tennis di Roma. Ha firmato rubriche per Sport Mediaset e scritto per Il Messaggero. Attualmente scrive del rapporto fra sport, serialità e tecnologia sul sito specializzato Sport In Media, di attualità tennistica su Ok tennis, di sport fra società e cultura sul quotidiano Domani.