eu-flag

Le contraddizioni dell’austerità all’europea

di Giorgio La Malfa
Il Mattino, 27 gennaio 2016

Tutto sommato la Commissione Europea non ha infierito sull’Italia nel suo temuto Rapporto triennale sulla sostenibilità delle finanze pubbliche dei paesi dell’Unione Europea reso noto ieri. Nel Rapporto si parla di «alti rischi» per il debito pubblico italiano nel medio termine, ma si riconosce che in Italia il sistema pensionistico, fonte ovunque di preoccupazioni, è invece in condizioni di sostanziale equilibrio. Si aggiunge anche che a breve termine, cioè nei prossimi 12 mesi, «l’Italia non sembra dover affrontare rischi notevoli di stress di bilancio».

Non è poco, specialmente se si pensa alle polemiche che oppongono l’Italia alla Commissione Europea in questi giorni.

Il Rapporto mette l’accento sulla necessità per l’Italia di fare scendere rapidamente il rapporto fra il debito pubblico e il Pil, che oggi supera il 130% ed è secondo in Europa solo a quello della Grecia. In questo, la Commissione ha assolutamente ragione. Un debito pubblico così alto comporta due rischi. Uno riguarda l’onere del servizio del debito, cioè il carico degli interessi che lo Stato paga sul proprio debito. Nel 2015, con i tassi di interesse al minimo, la spesa per interessi ha inciso per oltre il 4% del Pil. Quando, com’è largamente inevitabile, i tassi d’interesse europei cominceranno a salire (negli Stati Uniti il processo è già iniziato), l’onere del debito potrebbe diventare un problema molto grosso. L’altro rischio, non meno serio, nasce dal problema di collocare ogni anno un’imponente massa di titoli per rinnovare il débito in scadenza: per farlo bisogna che non si incrini in alcun modo la fiducia nel sistema Italia, il che ci espone a tutti i venti. Il senso delle conclusioni del documento della Commissione Europea è che per l’Italia è indispensabile concentrare l’attenzione sulla riduzione del rapporto debito pubblico-Pil.

Il Rapporto prende atto dei propositi del Governo italiano di mantenere un saldo primario (che è la differenza fra la spesa pubblica totale, al netto degli interessi, e le entrate fiscali) pari al 2,5% del reddito da, qui in avanti, ma osserva che, a questo ritmo, nel 2026 il debito pubblico starebbe ancora al 110% del Pil; meglio sarebbe quindi portare il saldo primario al 3,8%, perché in tal caso il rapporto debito-Pil scenderebbe sotto 100% da qui a 10 anni. Scrivere questi numeri è semplice: si potrebbe anche proporre un saldo primario ancora più alto e ridurre ancora il numero di anni richiesto per far scendere il rapporto debito-Pil sotto il 100%. Ma è la fattibilità pratica di queste proposte che sfiora l’assurdo. Solo sulla carta si può pensare che un Paese possa tollerare per 10 anni ed oltre un avanzo primario, cioè un prelievo fiscale ben superiore alla spesa pubblica senza che si determini una condizione di recessione. Il fallimento ormai riconosciuto quasi ovunque, tranne che negli uffici della Commissione Europea, delle politiche di austerità consiste nel fatto che le misure di forte riduzione dei disavanzi pubblici portano con sé la recessione e con la recessione la caduta del reddito nazionale e l’aumento (non la riduzione) del rapporto debito-Pil. Per ridurre l’incidenza del debito pubblico sul Pil bisogna far crescere il reddito nazionale. Se si riesce a farlo, l’aumento “spontaneo” delle entrate fiscali conseguente al miglioramento dell’andamento economico generale, fa scendere il disavanzo e contribuisce a ridurre il rapporto debito-Pil.

Oggi per far riprendere l’economia italiana sarebbe necessario un minor prelievo fiscale, ma non una riduzione compensata da tagli di spesa, come troppo spesso si dice, bensì una riduzione che aumenti nella fase iniziale il deficit e faccia ripartire proprio attraverso questo meccanismo l’economia del Paese. L’Europa dovrebbe avere la forza e la serietà di riconoscere che vi è una contraddizione di fondo fra i due obiettivi in materia di finanza pubblica fissati nel Trattato di Maastricht e rafforzati nel cosiddetto «fiscal compact». Se si persegue solo la riduzione del rapporto debito-Pil attraverso l’attivo del bilancio, si rischia di vedere scendere il reddito nazionale ed aumentare quindi il rapporto debito-Pil. Se si persiste lungo questa strada si finisce per fare una stretta fiscale sempre più aspra perseguendo un obiettivo sempre più irraggiungibile di fare scendere il rapporto debito-Pil. Per ridurre l’incidenza del debito pubblico sul PIL bisogna invece consentire il superamento del limite del deficit per il tempo necessario a fare ripartire la crescita economica. Sarà la crescita economica a riportare bilancio verso l’equilibrio ed a far scendere il rapporto fra il debito e il Pil. Sono due strategie completamente diverse. L’Europa dovrebbe riconsiderare la sua filosofia e ammettere che l’obiettivo di ridurre il rapporto debito-Pil non è necessariamente compatibile con quello di ridurre il rapporto deficit-Pil. Potrebbe chiedere ai paesi che vogliano superare per un certo tempo il primo dei due rapporti di adottare delle misure straordinarie di riduzione del rapporto debito-PIL, per esempio attraverso la cessione di asset pubblici, in maniera da non vedere aumentare il rapporto debito-PIL in coincidenza con il maggior deficit. Ma dovrebbe riconoscere che l’esperienza di questi anni suggerisce, anzi , impone di riconsiderare il fiscal compact. Come ho scritto qualche giorno fa, il Presidente del Consiglio si è probabilmente reso conto delle contraddizioni insite nelle regole europee e aspirerebbe a vederle cambiare. Dubito che il modo migliore per ottenere questo risultato siano le affermazioni roboanti  – ha ragione Paolo Mieli nel suo articolo di ieri del Corriere della Sera. Ma il problema c’è ed è sbagliato da parte dell’Europa non affrontarlo per quello che è.

guarda anche