di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese
Il Corriere della sera, 29 giugno 2019
Cari amici,
sono trascorsi 75 anni dalla Conferenza di Bretton Woods che delineò l’assetto economico del secondo dopoguerra. Con Giovanni Farese abbiamo ricostruito per il Corriere l’evento, spiegato le differenze fra il piano concepito da Keynes e quello del sottosegretario americano White che ebbe largamente la meglio e abbiamo tratto alcune conclusioni sul valore perdurante delle idee sviluppate in quella occasione.
Vi mando l’articolo con viva cordialità
Giorgio La Malfa
Il primo luglio 1944 le delegazioni dei Paesi alleati confluirono a Bretton Woods nel New Hampshire per discutere il futuro dell’economia mondiale. Il 6 giugno vi era stato lo sbarco in Normandia e si intravedeva ormai la fine del conflitto.
A differenza della Prima guerra mondiale, si volle definire per tempo l’assetto post bellico. Bretton Woods definì il sistema internazionale dei pagamenti e decise la creazione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, cioè fissò le coordinate economiche del dopoguerra.
L’economista inglese John Maynard Keynes L’economista inglese John Maynard Keynes I delegati furono 700 in rappresentanza dei 44 Paesi alleati. Partecipò anche l’Unione Sovietica, che però non aderì agli accordi conclusivi. L’Italia, Paese «cobelligerante» ma non «alleato», non fu invitata.
Fu ammessa nel 1947 al Fondo monetario e alla Banca mondiale, beneficiando anche del Piano Marshall, frutto ulteriore della stessa filosofia. PUBBLICITÀ inRead invented by Teads Bretton Woods fu il momento conclusivo di una riflessione che inizialmente aveva coinvolto solo Stati Uniti e Regno Unito. Era stato John Maynard Keynes, che in un celebre libro aveva denunciato gli errori commessi alla fine della Prima guerra mondiale, a formulare fin dal 1941 un progetto che il governo britannico aveva trasmesso agli Stati Uniti. Harry Dexter White, il vice del segretario al Tesoro americano Henry Morgenthau, aveva preparato una controproposta.
I due piani, oggetto di lunghi e spesso aspri negoziati, avevano in comune la scelta di un sistema di cambi fissi che evitasse le svalutazioni competitive e il ricorso al protezionismo degli anni fra le due guerre. Differivano, però, su molti aspetti essenziali. Keynes puntava a eliminare l’oro come mezzo di pagamento internazionale. Proponeva una Clearing Union che avrebbe emesso una moneta sopranazionale, il bancor, in base alle esigenze dell’economia mondiale. Gli Stati Uniti, usciti dal conflitto in posizione di forza, intendevano invece collocare il dollaro al centro del sistema, nel ruolo che la sterlina aveva avuto nell’Ottocento. Prevalse il punto di vista americano, anche se l’ispirazione di fondo rimase quella di Keynes.
Il Mount Washington Hotel, dove si svolse la conferenza, era un immenso albergo di lusso caduto in abbandono dopo la grande crisi del 1929. Rimesso in funzione in poche settimane senza andare troppo per il sottile era, secondo Lydia Lopokova — la ballerina classica russa, moglie di Keynes — una specie di «manicomio»: finestre che non si chiudevano, rubinetti che perdevano, tubi rotti. Morgenthau, invece, la cui stanza era sottostante a quella dei Keynes, lamentava che Lydia di notte facesse rumorosi esercizi di danza, che propagavano i loro effetti su tutta la cigolante struttura.
E tuttavia, nonostante i disagi, in venti giorni la conferenza approdò al risultato di delineare il futuro sistema dei cambi e le due istituzioni cruciali per il nuovo assetto. Per quanto la soluzione non corrispondesse pienamente alle sue idee, Keynes rimase il personaggio centrale della vicenda. Molto del successo della conferenza fu dovuto al suo fascino e alla sua capacità di persuasione. Lionel Robbins, liberale ortodosso assai critico delle idee di Keynes, confessò al proprio diario che questi era «uno degli uomini più notevoli che fossero mai esistiti: la logica pronta, il balzo alato dell’intuizione, la vivida fantasia, il senso incomparabile della parola giusta, tutto concorre a farne qualcosa di ben superiore al normale livello umano…
Gli americani sedevano affascinati mentre l’ospite, simile a un Dio, cantava fra giochi di luce dorata». La sera del banchetto finale Keynes ebbe una grave crisi cardiaca. Entrò quindi in ritardo nella sala, in un assoluto silenzio interrotto quando i delegati si alzarono intonando for he’s a jolly good fellow. Era il tributo a chi si era battuto perché il secondo dopoguerra evitasse gli errori di Versailles.
Amaro invece fu il destino di Harry Dexter White, trionfatore politico della conferenza, primo direttore esecutivo per gli Stati Uniti del Fondo monetario, costretto poco dopo alle dimissioni per aver avuto contatti con una rete di spie sovietiche. A Bretton Woods si optò per un sistema di cambi fissi, ma modificabili, basato sulle parità rispetto al dollaro delle monete partecipanti e su una garanzia americana di convertibilità del dollaro in oro al cambio di 36 dollari l’oncia. Il Fondo monetario e la Banca mondiale dovevano favorire lo sviluppo nella stabilità del sistema.
Il Fondo avrebbe fatto prestiti ai Paesi con squilibri strutturali di bilancia estera, affinché l’aggiustamento potesse avvenire senza abbandonare i cambi fissi, ma senza la necessità di politiche troppo restrittive che avrebbero inciso sui livelli di occupazione e di reddito. La Banca mondiale avrebbe aiutato lo sviluppo delle aree depresse, sia dei Paesi avanzati (come il nostro Mezzogiorno) sia dei Paesi arretrati. Keynes sapeva bene che gli errori di Versailles avevano propagato i loro effetti fino a spianare la strada a Hitler e ai regimi autoritari. Gli accordi di Bretton Woods dovevano servire a salvare, oltre che il capitalismo, anche la democrazia. Il sistema è rimasto in piedi per tre decenni, che corrispondono ai «Trenta anni gloriosi» dell’economia mondiale.
La sua fine fu dovuta all’accumulazione di disavanzi della bilancia dei pagamenti americana, che spinse i detentori di dollari a dubitare della garanzia di convertibilità aurea del dollaro. In effetti nel 1971 gli Stati Uniti dovettero dare forfait: dichiararono inconvertibile il dollaro e poco dopo imposero i cambi flessibili. Per non mettere a repentaglio la progressiva creazione di un mercato unico europeo, la Comunità Europea dovette cercare di creare un proprio sistema di cambi fissi. Da questa decisione è poi scaturito l’euro. Sono passati tre quarti di secolo e il contesto internazionale è mutato profondamente.
Ma da Bretton Woods vengono ancora lezioni utili per l’Europa e il mondo. I princìpi. La Conferenza fu ispirata ai princìpi della libertà ma anche della solidarietà internazionale. L’ideale ottocentesco del laissez faire fu sostituito dalla logica della cooperazione. Bretton Woods costituì uno dei pilastri dell’ordine liberale internazionale oggi sotto attacco da più parti. Gli strumenti. I cambi erano fissi ma modificabili in caso di necessità.
I movimenti di capitale non erano vietati ma sottoposti a controlli. Gli investimenti produttivi erano favoriti rispetto a quelli speculativi. Il sistema non era affidato agli automatismi: era accompagnato e governato. Keynes aveva proposto che i Paesi in surplus condividessero la responsabilità dell’aggiustamento degli squilibri delle bilance dei pagamenti con i Paesi in deficit. Ai primi doveva essere imposto di spendere i loro surplus per favorire la ripresa altrui.
Era un’idea rivoluzionaria, che gli americani respinsero. Ma i persistenti squilibri all’interno dell’Unione monetaria europea, dove l’onere dell’aggiustamento è posto esclusivamente a carico dei Paesi in deficit, conferma che quella di Keynes è una via obbligata. Gli obiettivi. L’articolo 1 dello Statuto del Fmi indicava tra i compiti primari della politica economica la promozione di alti livelli di occupazione e di reddito.
A Bretton Woods Morgenthau affermò che la piena occupazione doveva diventare l’obiettivo dei governi. Peccato che la controrivoluzione monetarista della fine del secolo scorso, con la sua fiducia illimitata nell’efficienza dei mercati, abbia portato i governi a dimenticare questo impegno. Ma lì si dovrà tornare. Il messaggio conclusivo è che i persistenti squilibri nell’economia mondiale non possono essere risolti con il ricorso a chiusure protezionistiche o improvvisazioni monetarie.
Da Bretton Woods arriva ancora l’invito a cercare soluzioni lungimiranti per allargare le basi della prosperità e della sicurezza nel contesto di istituzioni libere.