di Giorgio La Malfa
Il Mattino, 16 maggio 2016
Secondo gli impegni previsti nel cosiddetto Fiscal Compact, nel 2016 il deficit pubblico italiano avrebbe dovuto collocarsi al di sotto del 2% del Pil ed il rapporto fra il debito pubblico e il reddito nazionale, cresciuto ininterrottamente in questi anni fino a quasi il 133%, avrebbe dovuto fermarsi e cominciare a scendere. Queste erano, nell’autunno scorso, le previsioni del governo che aveva altresì annunciato una crescita del reddito nazionale dell’1,6% per l’anno in corso. In realtà nel 2016 nessuna di queste previsioni è destinata a realizzarsi. La crescita del reddito è oggi stimata, con un qualche ottimismo, all’1,2 per cento. Di conseguenza, anche per effetto di questo andamento, il deficit di bilancio si collocherà fra il 12 e il 13%, mentre il rapporto fra il debito pubblico e il Pil resterà quest’anno sostanzialmente invariato. Il governo però ha fatto sapere nelle scorse settimane che quello che doveva succedere quest’anno avverrà senza dubbio l’anno prossimo e adesso attende il giudizio della Commissione europea previsto per mercoledì.
Le informazioni che giungono da Bruxelles dicono che la Commissione non è orientata a fare la voce grossa. Sembra che, al termine di vari scambi di informazioni e di contatti fra il ministero dell’Economia e Bruxelles, l’Italia se la caverà con qualche rilievo formale e un invito a fare l’anno prossimo quello che originariamente era previsto per quest’anno. In particolare ci verrà detto che nel 2017 il deficit dovrà ridursi di 10 miliardi di euro rispetto al suo andamento tendenziale e che bisognerà impegnarsi di più nella riduzione del rapporto fra il debito e il Pil. Ma non ci dovrebbe essere il temuto avvio di una procedura di infrazione. Non sarà, del resto, un trattamento di favore riservato a noi soltanto. Sono molti i Paesi nei quali l’andamento della finanza pubblica viola le regole, a cominciare dalla Francia e dalla Spagna e le preoccupazioni politiche per le imminenti elezioni in Spagna e le quasi imminenti elezioni in Francia peseranno nel senso di un trattamento il più lieve possibile. Vi sono due spiegazioni per questo rilevante cambiamento di clima della burocrazia europea, se sarà confermato. La prima è che vi è una crisi drammatica dell’Unione europea investita da questioni difficilissime come la solidarietà sul problema dell’immigrazione, messa in dubbio dagli sviluppi politici in molti Paesi dell’Est e minacciata dal rischio dell’uscita dell’Inghilterra.
Tutti questi fattori spingono la burocrazia di Bruxelles a un’estrema prudenza e le sconsigliano di alimentare ulteriori polemiche e di evitare, per quanto è possibile, un ulteriore distacco delle opinioni pubbliche dalle istituzioni europee. La seconda spiegazione è legata alle posizioni prese in questi mesi dalla Banca Centrale Europea, che è oggi l’unica autorità politica riconosciuta e dotata di autorevolezza. La Bce è impegnata a cercare di far ripartire l’economia europea, ma sa che la politica monetaria da sola non basta. Vi è la necessità di un sostegno della domanda che può provenire solo dai bilanci pubblici. Pur non potendo esprimere apertamente questa opinione che contraddirebbe la filosofia ufficiale dell’ eurozona, è probabile che riservatamente la Bce abbia fatto comprendere alla Commissione di Bruxelles che non è questo il momento di calcare la mano sulla finanza pubblica. Da queste due circostanze segue che anche per quest’anno l’Italia potrà cavarsela nel giudizio sulla sua finanza pubblica. Naturalmente i problemi rinviati non sono risolti. Prima o poi il deficit e il debito pubblico dovranno cominciare a scendere anche in Italia e se non lo faranno in conseguenza e per effetto della ripresa economica, diventerà indispensabile qualche manovra restrittiva di vecchio tipo. Già nel 2017, con le elezioni politiche all’inizio del 2018? È improbabile. Per cui è possibile che il governo sia tentato di anticipare le elezioni all’inizio del 2017 prima che scatti la richiesta di un taglio del deficit di qualche consistenza. Ma, se per quest’anno, il governo ottiene una mezza indulgenza, resta però il problema di fondo. Il fatto è che l’economia italiana non riparte. La politica seguita in questi due anni non è servita.
Non solo l’Italia non cresce di quanto sarebbe indispensabile per riassorbire la caduta del reddito iniziata nel 2008 e l’aumento drammatico della disoccupazione specialmente nel Mezzogiorno, ma cresce meno di qualunque altro paese dell’area dell’ euro. In queste condizioni, la politica finanziaria seguita in questi anni mostra la corda di essersi fermata a metà strada. Non ha accettato il cammino di rientro via l’austerità richiestoci dalle autorità europee, ma non ha fatto un uso sufficientemente coraggioso della politica di bilancio per sostenere la ripresa. Ed ora siamo di fronte a delle difficoltà serie che si sono manifestate in questi mesi: l’Italia cresce poco e quindi tendono a deteriorarsi i parametri della finanza pubblica. Perché se non riparte la crescita, a un certo punto il problema del debito può diventare un vero e proprio nodo scorsoio. Specialmente nel caso in cui i tassi di interesse dovessero ricominciare a crescere. È giusto rifiutare la filosofia dell’austerità che tanti danni ha fatto in Europa ed è condivisibile l’idea che la risposta ai problemi dell’equilibrio della finanza pubblica venga dall’aumento del reddito nazionale e dell’occupazione e non dal prelievo fiscale su un corpo economico sempre più debilitato. Ma questa strategia richiede che le politiche fiscali siano adeguate a fare ripartire davvero l’economia italiana. Debbono incidere nella propensione al consumo ed all’investimento. Non basta una attenuazione del percorso di rientro, come è stato fatto in questi due anni. C’è il rischio che la Commissione europea decida di stare a guardare: che ci lasci attenuare il rigore fiscale, sapendo che prima o poi saranno i fatti ed i mercati e magari le agenzie di rating a imporre quelle misure drastiche che oggi politicamente rifiutiamo. Il rischio che corriamo è di restare nel mezzo del guado, senza approdare né alla sponda del rigore, né a quella dello sviluppo economico. E, di conseguenza, di trovarci domani con i problemi rinviati oggi ed aggravati per il passare del tempo.