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Non rassegnarsi alla profezia del Fondo Monetario

di Giorgio La Malfa
Il Mattino, 26 maggio 2016

Una missione del Fondo monetario visita ogni anno ciascun Paese mem­bro ed alla fine rilascia, per così dire, un attestato di più o meno buona sa­lute. L’altro giorno si è conclusa la missione in Italia del Fondo ed è sta­to reso noto il suo verdetto sullo stato di salute della nostra economia.
Nel documento si leggono molte delle considerazioni consuete quan­do si parla dell’Italia: il reddito cresce poco; la produttività è stagnante; il debito pubblico è e (troppo) alto; il defi­cit è basso ma potrebbe esserlo ancor di più. Una certa disattenzione si capi­sce perché sono considerazioni già lette altrove, e soprattutto perché, mentre fino a 20 anni fa il Fondo mo­netario era l’unica autorità interna­zionale che seguiva e commentava gli andamenti economici dei princi­pali Paesi e, se del caso, era chiamato ad aiutarli, oggi, creata l’Unione mo­netaria europea e introdotto l’euro, il ruolo della vigilanza è stato assunto dalla Commissione europea e dalla Banca centrale, chiamati a interveni­re in caso di necessità. Questo può spiegare una certa sommarietà nella lettura delle parole che vengono dal pulpito del Fondo monetario.

E tuttavia ieri, insieme alle consi­derazioni consuete, vi era una frase, all’inteino di un lungo capoverso, che non poteva sfuggire e probabil­mente non è sfuggita all’ attenzione. Una frase dalle implicazioni dram­matiche che avrebbe dovuto suscita­re una reazione del governo e un di­battito fra le forze politiche e nell’opi­nione pubblica. E invece nulla: qual­che giornale la ha riportata, ma nes­suno sembra volersi misurare con quello che lì si legge.
Ha scritto il Fondo: «Il governo con le sue politiche prevede di realiz­zare una crescita in Italia dell’1,1% quest’anno e dell’1,25% nel 2017 e nel 2018. Questa previsione corre il ri­schio di rivelarsi ottimistica a causa della volatilità dei mercati finaziari, dell’eventuale Brexit, dell’aumento del fenomeno dei rifugiati, del rallen­tamento del commercio mondiale». Detto questo il Fondo scrive: «Que­sto ritmo di crescita implica che l’attività produttiva tornerebbe ai livelli del2007 soltanto alla metà degli Anni 20, allargando così la forbice con la crescita media dell’area dell’euro». Forse vale la pena di ripetere e di sot­tolineare queste parole scivolate -co­me avrebbe detto Keynes- come l’ac­qua sul dorso delle papere: il Fondo monetario ritiene che, nella più ro­sea delle ipotesi, l’Italia si troverebbe a metà degli Anni 20 appena ai livelli di reddito di 10 anni fa. Avremo butta­to via venti anni, mentre il resto del mondo e la stessa Europa crescono, è avremo condannato un’intera ge­nerazione di cittadini alle condizioni di vita dell’Italia di venti anni fa.

Difronte a una diagnosi così infau­sta, si sarebbero dovute sentire le pro­teste del governo determinato a reagi­re con indignazione alla sola ipotesi che esso potesse essere rassegnato a un esito così deludente. Il governo avrebbe dovuto dichiarare che il Fon­do monetario aveva sottovalutato l’effetto di medio periodo delle politi­che attuali e che, dopo l’1,1 di quest’anno e l’1,25% del successivo bien­no, la crescita accelererà fino ed oltre la media europea. Oppure le forze po­litiche avrebbero potuto discutere su come evitare questi esiti tragici e cia­scuna avrebbe potuto offrite il pro­prio contributo di idee e di proposte.

Invece il silenzio, che è l’indice più certo della rassegnazione. Ma non doveva il governo cambiare il verso all’Italia? Anzi, non lo aveva già fatto con la sua mole di riforme che il Fmi giudica impressive (che non vuol dire impressionanti, come han­no scritto alcuni giornali, ma sempli­cemente molto significative)? E non è uno straordinario successo avere ot­tenuto dall’Europa la flessibilità nel bilancio per il 2016? Ma se tutto l’ esi­to di questa battaglia è che riuscire­mo a crescere poco, se va tutto bene, ed anche in quel caso meno della me­dia dei paesi dell’euro, valeva la pena di impegnarsi per così poco? Non si doveva chiedere di più, strappare di più, fare di più anche contro l’Euro­pa?

Qualcuno risponderà che è molto complesso muoversi fra le pesanti eredità del passato, le rigidità perma­nenti della società italiana e l’atteg­giamento chiuso e dogmatico dell’Unione europea. È chiaro che non è facile trovare una strada e che vi possono essere strade diverse. Ma di questo bisogna discutere.
Come ho scritto molte volte, per parte mia penso che bisognerebbe usare di più e meglio la finanza pub­blica, anche a costo di dispiacere o di litigare con l’Europa. Ma si può an­che, legittimamente, ritenere che in­vece non si possa affrontare questo rischio, avendo un debito pubblico molto alto. Se è così, bisogna sceglie­re e praticare un’altra strada. Taglia­re le spese pubbliche correnti e ridur­re le tasse? Riformare i mercati? Im­maginare cose a cui non abbiamo pensato? Tutto è lecito, tranne il silen­zio e la rassegnazione.

Perché se questa è la sorte dell’Ita­lia, prima o poi verrà una proposta politica che spazzerà via la classe diri­gente attuale. Si cercherà di esorciz­zarla definendola una proposta po­pulista, magari ci si consolerà con l’esito delle elezioni austriache. Ma se le classi dirigenti democratiche ab­dicano al loro dovere di fare stare me­glio i propri cittadini ( dove «meglio» vuol dire almeno farli stare come la media dei Paesi dell’euro), non sono populisti quelli che si candidano a so­stituirle. È conservatrice una classe dirigente ridotta al desiderio della pu­ra sopravvivenza.

Giorgio La Malfa

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