di Giorgio La Malfa
Il Mattino, 7 gennaio 2016
Un anno fa di questi giorni, Mario Draghi si preparava alla battaglia nel Consiglio direttivo della Banca centrale europea per lanciare il Quantitative easing. Doveva fronteggiare l’ostilità dei membri tedeschi del Consiglio e di alcuni. Paesi loro alleati contro l’idea che la Bce dovesse assumere un atteggiamento più attivo nel combattere la crisi economica. Poi, giovedì 22 gennaio 2015 la decisione venne presa. Venne varato un programma straordinario di acquisti di titoli del debito pubblico dei paesi membri in contropartita del quale la Bce ha immesso, e continua ad immettere, notevoli dosi di liquidità nell’eurozona. Nel gergo europeo la decisione venne presentata come un passo necessario per rispettare il mandato che il Trattato di Maastricht affida alla Banca centrale di mantenere l’inflazione «sotto, ma vicino al 2% annuo», ma era implicito che l’aumento della dinamica dei prezzi dovesse essere il risultato di una ripresa economica che ancora languiva.
A distanza di un anno la manovra non ha funzionato: i prezzi non si sono mossi. In Europa l’indice dei prezzi è cresciuto solo dello 0,2%. In Italia, dove la ripresa è, aldilà delle espressioni di autocompiacimento del Governo, la più debole dell’eurozona, i prezzi sono praticamente fermi – cosa che non avveniva dal 1959.
Qual è il problema? Perché la forte iniezione di moneta operata dalla Bce non ha avuto effetti? La ragione è che la domanda è debole e la disponibilità di risorse finanziarie messe a disposizione dalla Banca centrale non basta a farla ripartire. Gli acquisti di titoli hanno soltanto tenuto bassi i tassi di interesse, ma non si sono tradotti né in maggiori consumi, né in maggiori investimenti. Il fatto è che quando – come si diceva un tempo – «il cavallo non beve» (anche se avrebbe a disposizione molta acqua), è necessaria un’azione esterna che solleciti la ripresa. Questa azione può provenire solo dai bilanci pubblici in disavanzo.
In Europa questa semplice considerazione non riesce a farsi strada. La Commissione europea, che pure aveva prospettato l’ipotesi di finanziare un piano di investimenti straordinario – il cosiddetto Piano Juncker – per ora non ha fatto nulla. La Germania, pur avendo i conti pubblici in ordine, non ha fatto nulla, forse per il timore che anche gli altri paesi dell’eurozona l’avrebbero seguita su questa strada, indipendentemente dallo stato dei loro conti. Gli altri Paesi, a cominciare dall’Italia, si sono attenuti alle indicazioni europee di dare priorità al tentativo di riportare il bilancio in pareggio.
Nella legge di Stabilità approvata dal Parlamento prima di Natale, l’Italia ha rallentato il più possibile le riduzioni del deficit richiesteci dall’Europa (tanto che non sappiamo ancora se in primavera la Commissione europea approverà la manovra o aprirà una procedura di infrazione), ma comunque progetta di ridurre nel 2016 il deficit rispetto a quello che era nel 2015. Dunque sottrae risorse alla possibile ripresa dell’economia.
Negli Stati Uniti e in altri paesi il Quantitative easing ha avuto effetti positivi molto forti perché si è accompagnato a politiche di bilancio espansive. In Europa e in Italia ci si è affidati soltanto all’effetto delle immissioni di liquidità da parte della Banca centrale. Per questo motivo l’economia reale e l’occupazione non hanno tratto alcun beneficio da queste politiche.
È stato dunque inutile il Quantitative easing? Esso è stato inutile rispetto al proposito di fare ripartire la crescita dell’eurozona, anche se ha prodotto qualche vantaggio collaterale: per l’Italia, ad esempio, ha consentito un notevole risparmio nel costo degli interessi sul debito pubblico (il ministero dell’Economia ha parlato di un beneficio di circa 15 miliardi di euro in un anno) e questo ha consentito di tagliare meno altre voci della spesa pubblica. Ma esso non ha accompagnato la creazione di una domanda aggiuntiva che avrebbe potuto rimettere in moto con più forza la ripresa.
Benché le autorità europee si rendano ormai conto che le politiche di austerità non funzionano ed anzi hanno aggravato e prolungato le conseguenze della grande crisi iniziata nel 2008, esse non osano cambiare strada e imboccare la via di un sostegno deciso alla ripresa da ottenersi attraverso un coraggioso programma di investimenti pubblici che farebbero ripartire l’economia europea e inciderebbero efficacemente su una disoccupazione che è il doppio non solo di quella degli Stati Uniti, ma anche di quella dei Paesi europei che non appartengono alla zona dell’euro.
In questa situazione, l’onere di decidere il da farsi ricade sui singoli Paesi. Essi e solo essi debbono decidere che cosa fare. Se, pur criticando la rigidità europea, o magari polemizzando apertamente con la Germania, come spesso fanno i nostri rappresentanti, ne rispettano i dettati o li violano solo marginalmente, l’economia continuerà a trascinarsi stancamente in avanti a piccoli e non significativi passi.
Oltretutto, una volta che gli Stati Uniti, avendo raggiunto la piena occupazione, hanno imboccato la strada di attenuare il Quantitative easing, la stessa Bce potrebbe essere costretta a riconsiderare il proprio programma. Si sta perdendo così, per un astratto omaggio a delle regole che furono immaginate per moderare una tendenza inflazionistica che, quando nacque la moneta unica, appariva ‘endemica in Europa, l’occasione di fare ripartire l’ eurozona e in essa il nostro Paese.
Con il rischio ulteriore che, non ripartendo la crescita del reddito nazionale, il peso del debito pubblicò invece di decrescere aumenti fino a divenire insopportabile.
Sarebbe indispensabile una svolta nella politica economica dell’Europa, ma il clima politico e l’aggravarsi di altri concomitanti problemi, dal terrorismo all’immigrazione, rendono questa prospettiva poco plausibile. Spetta dunque a ciascun Paese scegliere la propria strada, sapendo che andando avanti di questo passo si rischia una crisi del debito pubblico che può accendersi, o riaccendersi, all’improvviso. Bisogna agire tutti insieme o, se non è possibile, da soli, prima che divenga troppo tardi.