di Giorgio La Malfa
Il Mattino, 9 maggio 2016
Quasi nessuno lo ricorda oggi, nel clima di rassegnazione perle condizioni del Mezzogiorno. E nella sostanziale rinuncia a ogni tentativo organico di rilanciare lo sviluppo di questa parte del Paese, che per circa venti anni, fra il 1952 e il 1973, l’economia meridionale si mosse con notevole vivacità fino al punto di progredire più di quella del Nord. Fra il 1952 e il 1973 il prodotto per occupato, cioè la produttività del lavoro, crebbe in media del 5,2% l’anno nel Mezzogiorno rispetto a14,5% del CentroNord. Aumentarono fortemente gli investimenti complessivi. Nel Mezzogiorno l’aumento medio fu del 7,9% rispetto al 6,3% del CentroNord. Gli investimenti industriali crebbero nel Mezzogiorno a un ritmo doppio del CentroNord (+10,1 annuo, rispetto al 4,9). In quegli anni l’occupazione nel Mezzogiorno aumentò dell’1,3% annuo, sostanzialmente in linea con l’andamento del resto del Paese.
L’effetto combinato di questi andamenti economici fu un aumento notevole del reddito pro capite nel Mezzogiorno quasi triplicatosi da poco meno di 4.400 euro nel 1951 a circa 12.000 euro venti anni dopo, mentre nel Centro Nord il reddito pro capite saliva da 6.300 a 17.600 euro La maggiore crescita del Mezzogiorno portò a un riavvicinamento notevole fra le due aree del paese in termini di reddito: nel 1951 il reddito pro capite nelle zone del Mezzogiorno era poco più della metà di quello del Nord (52,9%); venti anni dopo, esso era pari al 60,5%.
Nord e Sud crescevano insieme e il Sud tendeva a recuperare lo svantaggio che si era andato accumulando nei decenni precedenti e specialmente durante gli anni del fascismo. Insomma, il Mezzogiorno si era messo in marcia. Poi, dal 1973 in avanti, questo cammino ha rallentato fino ad arrestarsi del tutto. Hanno pesato fattori esterni, come l’instabilità del sistema finanziario internazionale e l’aumento straordinario del prezzo del petrolio e, a partire dagli anni ’90, l’orientamento restrittivo imposto dalla partecipazione agli sforzi di unificazione monetaria europea. Tutti questi fattori hanno portato l’economia italiana nel suo complesso a rallentare. Ma sul Mezzogiorno hanno pesato altre circostanze, interne al nostro Paese. Il punto di svolta negativo nella vicenda economica del Mezzogiorno è stata la costituzione delle regioni, nel 1970. Appena costituite, le regioni, che pure mancavano di esperienza delle politiche di sviluppo, chiesero insistentemente l’abolizione dell’intervento straordinario e il passaggio delle risorse che fino ad allora erano state incanalate attraverso la Cassa per il Mezzogiorno alle regioni stesse. 111992 segna la fine definitiva dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
Come documenta ampiamente un bel volume appena pubblicato dalla Svimez, che verrà presentato giovedi prossimo a Napoli (Autori Vari, La dinamica economica del Mezzogiorno dal secondo dopoguerra alla conclusione dell’intervento straordinario, Svimez, Il Mulino, Bologna 2015) rappresenta l’inizio della crisi nelle quale il Mezzogiorno si dibatte tuttora. Lentamente, ma progressivamente il Mezzogiorno ha perso buona parte del terreno riconquistato fino al 1973, tanto che nel 2014 il reddito pro capite del Mezzogiorno è appena pari al 56,3% di quello del CentroNord. Quali sono stati gli ingredienti di quella specie di miracolo meridionale in seno al miracolo economico italiano degli anni cinquanta e sessanta? Essenzialmente furono due: un impegno straordinario nell’infrastrutturazione delle regioni meridionali assistita da stanziamenti finanziari consistenti e affidata a un ente, come la Cassa per il Mezzogiorno, largamente immune, all’inizio della sua storia, da influenze politiche e partitiche; uno sforzo di favorire gli insediamenti industriali nel Mezzogiorno, sia attraverso un indirizzo dato al sistema delle partecipazioni statali, sia attraverso importanti incentivi fiscali e creditizi. Collegato a questo impegno nel senso dell’industrializzazione, vi fu una espansione importante del sistema bancario del Mezzogiorno. Come scrivono Padovani e Provenzano in uno dei saggi più importanti del volume «già dagli anni settanta, si registra una progressiva perdita di efficacia dell’intervento straordinario determinata… dalla attenuazione della selettività e generalizzazione degli accessi agli incentivi,… eccessiva proliferazione di aree di intervento che ne mina la concentrazione territoriale,— difficoltà a rendere compatibile l’impostazione tecnica della Cassa con il mutamento istituzionale dell’avvio del regionalismo italiano».
Ed ancora, come si legge in un precedente studio della Svimez, risale a quegli anni la sottrazione «per effetto dell’invadenza dei partiti e delle correnti di autonomia e di responsabilità agli enti dell’intervento straordinario che hanno finito per essere considerati sempre meno strumenti tecnici politicamente neutrali». La crisi dell’intervento straordinario e la crescita di peso delle regioni, generalmente guidate da classi dirigenti improvvisate, ha portato a una progressiva riduzione degli investimenti ed a una crescita delle spese correnti. Le regole europee, attente soprattutto agli equilibri contabili, hanno fatto il resto, essendo ovviamente più facile e più conveniente dal punto di vista degli interessi politicoelettorali di breve periodo, riequilibrare i bilanci, mantenendo inalterata la spesa corrente e tagliando gli investimenti. Così, non essendo cresciuta la capacità di offerta di beni da parte del sistema produttivo meridionale, l’aumento del potere di acquisto dovuto ai trasferimenti correnti ha alimentato soltanto il fatturato delle imprese del CentroNord. Infine, il sistema creditizio del Mezzogiorno è andato in crisi ed è stato largamente assorbito dalle banche del Nord. In uno dei capitoli più interessanti del volume Adriano Giannola e Antonio Lopes ripercorrono la storia del sistema creditizio nel Mezzogiorno nel dopoguerra e ricostruiscono la storia della crisi del Banco di Napoli e le condizioni di particolare favore alle quali esso venne fatto acquistare da una delle grandi banche del Nord.
L’importanza di questo volume della Svimez, che va letto con attenzione in tutti i suoi capitoli, non è esclusivamente storica. Non serve a ricordare un’occasione di riscatto del Mezzogiorno che è stata malamente sprecata nel momento nel quale essa cominciava a dare i suoi frutti. La lezione dell’intervento straordinario è tuttora attuale. Bisogna ripartire da quella esperienza. Serve una capacità di programmare una serie di investimenti infrastrutturali interconnessi fra loro ed affidarne la realizzazione ad organismi liberi dal predominio ossessivo delle correnti partitiche (e dai fenomeni di corruzione che sembrano ormai consustanziali all’azione pubblica). Ed è altresì indispensabile promuovere una nuova stagione del sostegno alla industrializzazione del Mezzogiorno. Non servono azioni episodiche, annunci di “master plans” per il Mezzogiorno, né la firma affrettata di accordi fra il governo, le regioni e i comuni che normalmente raccolgono disordinatamente progetti che giacciono nei cassetti pubblici da molti anni. Serve la stessa passione civile che animò i governi degli anni della Ricostruzione che guardarono alla realizzazione di un Paese liberato dal tradizionale dualismo ereditato dalla sua storia, ma serve anche un severo senso dello Stato che sembra essere andato perso nel corso di questi decenni.