di Giorgio La Malfa
Il Mattino, 22 marzo 2017
Un dato emerge con forza dal Rapporto sull?industria nel Mezzogiorno curato dalla Fondazione La Malfa con la collaborazione dell?Area studi di Mediobanca,un dato inatteso ma molto rilevante perché può restituire un filo conduttore alle politiche meridionalistiche. Il dato è che le imprese medie e le imprese medio-grandi localizzate nel Mezzogiorno hanno andamenti e risultati economici molto simili a quelle delle analoghe imprese del centro e del Nord del Paese.
Hanno recuperato i livelli del fatturato del periodo che ha preceduto la crisi, hanno una quota di esportazioni molto forte e soprattutto hanno una incidenza dei costi del lavoro sul fatturato ? che è un indice di competitività ? analoga al Centro-Nord. Sono, cioè, nell?insieme, imprese sane.
In sostanza, questi dati mostrano, forse per la prima volta con tanta chiarezza, che fare impresa nel Mezzogiorno può essere un progetto valido. Non vi sono cioè condizioni ambientali che rendono non economiche le attività meridionali. Ed è da qui che può e deve ripartire di nuovo la politica meridionalista.
Naturalmente l?importanza di questo dato positivo sui risultati economici delle attività imprenditoriali del Mezzogiorno, non deve far dimenticare, invece, che sul piano quantitativo la presenza delle imprese sul territorio meridionale è modesta e soprattutto che mostra una tendenza a contrarsi ulteriormente. Le imprese che ci sono vanno abbastanza bene, ma sono poche e tendono a diminuire nel numero.
Il censimento delle imprese medie meridionali contenuto nel Rapporto indica che su un totale nazionale di 3.334 imprese, nel Mezzogiorno ve ne sono solo 263. E soprattutto che la crisi economica in cui l?Italia si trascina dal 2008 ha avuto un effetto grave su questo comparto. Vi erano 360 imprese medie nel Mezzogiorno nel 2008, cioè 100 in più del 2014. Campania, Puglia e Abbruzzo sono le regioni in cui questa presenza è più forte.
La conseguenza, negativa, di questa scarsa presenza numerica e della sua progressiva riduzione è il livello dell?occupazione. Nel 2104 fra imprese medie e stabilimenti con più di 500 dipendenti, in tutto il Mezzogiorno si arrivava a un ?occupazione complessiva nell?industria di poco superiore a 100.000 addetti.
Poco, anzi pochissimo, per 8 regioni in cui risiede più di un terzo della popolazione italiana. Dunque, il quadro industriale del Mezzogiorno è quello di una presenza scarsa, ma qualitativamente di un certo interesse. Ed è da qui che devono partire alcune riflessioni per il futuro. La prima è che, se la media industria meridionale può funzionare, bisogna domandarsi come si può incentivarne la nascita. Mancando una diffusione dell?’imprenditoria locale, bisogna sollecitare il trasferimento nel Mezzogiorno di imprese di altre zone del Paese, ma trattandosi di imprese medie vanno curate delle condizioni particolarmente adatte per queste imprese.
Questo non vuol dire prevedere degli incentivi, come troppo spesso si è fatto, bensì immaginare la creazione di un ambiente entro il quale collocare le imprese che decidano di insediarsi nell?uno o nell’?altra regione meridionale. Da qui l?idea, che il Rapporto propone, di riesaminare e rilanciare l?esperienza che fu tentata ancora negli anni ?60, delle Aree industriali del Mezzogiorno. Bisognerebbe scegliere una o al massimo due aree per ciascuna regione (una per le piccole regioni, due per le regioni maggiori) nelle quali concentrare le infrastrutture, i servizi, gli incentivi fiscali – se possibile sulla base delle norme europeei collegamenti con le Università, la presenza delle aziende di credito.
Le medie imprese dovrebbe essere incentivate ad insediarsi in esse, avendo la garanzia da parte dello Stato che dovrebbe avere la responsabilità, forse da condividere con le Regioni, dell?assoluta mancanza di interferenze da parte dell?illegalità. Questo è l?aspetto cruciale perché se c?è una ragione della scarsa attrazione del Mezzogiorno sulle attività industriali è il senso di una precarietà degli aspetti della sicurezza ed anche di una sostanziale inefficienza delle pubbliche amministrazioni. Sarebbero le Aree industriali a dover fare da filtro fra le imprese che si insediano in esse e l?ambiente circostante. E potrebbe esservi una salutare concorrenza fra le varie aree industriali delle diverse regioni circa il livello dei servizi offerti alle imprese che vi si insedino.
Come si può procedere? Penso che sia venuto il momento in cui i Governi si assumano delle responsabilità precise sul piano quantitativo: se oggi sono poco più di centomila gli addetti all?industria nel Mezzogiorno, vi è da auspicare che il Governo fissi un traguardo decennale per l?occupazione derivante da questo progetto: per esempio portare l?occupazione industriale nel Mezzogiorno a 800.000 o a un milione di addetti nel corso di un decennio. Se l?idea delle aree di sviluppo industriale prende piede, questo obiettivo può avere un carattere realistico. In somma, si può tornare a pensare al Mezzogiorno con minore sfiducia e con maggiore speranza.