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Energia e democrazia negli Usa

di Francesco Olivieri

WASHINGTON – L’energia in America è una torre di potere politico e una grande industria. L’energia non solo raccoglie una parte fondamentale dell’economia del paese, ma è anche un elemento costitutivo del modo di vita americano, che si sta cominciando ad adattare al nuovo paradigma imposto dal cambiamento climatico.

Il costo della democrazia. Mantenere la democrazia degli Stati Uniti non costa poco, e il prezzo sta ancora salendo rapidamente.  Il sistema politico del paese riposa su un meccanismo elettorale fitto e capillare, altamente competitivo, che per funzionare brucia enormi quantità di denaro. Su scala nazionale, nel corso dei due anni che separano i cicli elettorali, sia i partiti politici che i singoli candidati impegnano vaste risorse per motivare gli elettori. La brevità dell’intervallo tra le votazioni contribuisce ad elevare il costo di questi esercizi di democrazia, la cui crescita è andata accelerando. Pur non essendo elezioni presidenziali, la campagna per le recenti consultazioni di “mezzo termine” per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato è costata intorno ai 17 miliardi di dollari: equivale agli interi profitti della Ford Motor Co. per lo scorso anno, e è stato superato largamente il costo di quelle del 2020 vinte da Biden (14 miliardi; quelle del 2016 con la vittoria di Trump costarono 11 miliardi). Visto che i partiti non hanno risorse proprie paragonabili a quelle della Ford, debbono intervenire i contributi volontari dei sostenitori dei partiti stessi o dei singoli candidati, che sono spremuti in continuità, e non solo durante il ciclo elettorale. È inevitabile, in queste condizioni, che i politici si rivolgano a facoltosi finanziatori privati, senza escludere quelli intenti ad acquisire meriti trasformabili in vantaggi di varia natura: dall’appena velato acquisto di pregiati incarichi diplomatici, spesso coronamento di una carriera professionale di successo, a un più rude compenso sotto forma di influenza politica, mirata a vantaggi fiscali, legali, o puramente materiali. Non si parla qui dei venti o cento dollari del popolo dei simpatizzanti che aiutano un candidato ad affittare una sala o stampare un manifesto, ma di pagare per campagne milionarie, con una dozzina di migliaia di professionisti a contratto, raduni di centinaia di migliaia di simpatizzanti, trasferimenti del candidato con aiutanti e stampa al seguito in aereo privato, ore di spazio televisivo, spazio pubblicitario sulla stampa, e tutto il resto…

Money money money… Su questo sfondo, il settore dell’energia ha avuto un’influenza rilevante, sia per la disponibilità di fondi (a loro volta derivanti dallo sfruttamento delle risorse nazionali ed estere), sia perché le operazioni ed i profitti del settore sono condizionati dal governo, tramite la concessione di aree di ricerca demaniali, la regolamentazione del settore energetico, e la sua tassazione, con la forte, forse irresistibile tentazione per gli uni e gli altri di suggellare compromessi – anche se a rischio di corrodere l’architettura della  democrazia nel paese. Esistono poi nella legge scappatoie che consentono di nascondere la provenienza dei fondi attribuiti alle fazioni politiche in lizza. Basta che questi fondi siano raccolti da un intermediario, che sarà obbligato a dichiararsi, ma non è tenuto a rivelare la provenienza originaria dei fondi raccolti, che restano così non tracciabili: e sono noti come “Dark Money”. Una manna per chi ha qualcosa da nascondere, compresi governi stranieri male intenzionati e profittatori o speculatori comuni, perché l’anonimato consente di nascondere le eventuali finalità del donatore. In confronto, il sistema dei “lobby”, che evoca l’immagine di trattative condotte nei “corridoi”, non negli uffici dei parlamentari, è quasi casto, e ricorda l’antica tradizione medioevale a formare organizzazioni professionali corporative, che si aggregano per influire sul governo. Il collegamento tra il mondo dell’energia e quello della politica fa parte del panorama ordinario che deve affrontare la democrazia americana per rimanere sé stessa.

Energia, in Europa, fa subito pensare a elettricità; per un americano, specie se si parla di politica, la parola energia evoca benzina, poi elettricità e le sue fonti: carbone, gas, nucleare.

A lungo, gli USA sono stati importatori di idrocarburi. Poi avvenne il trauma dall’embargo imposto dall’OPEC nel 1973, che determinò che le esportazioni di questi prodotti, per un lungo periodo, fossero sottoposte a licenza. Per inciso, l’embargo portò anche alla creazione della Agenzia Internazionale dell’Energia, a Parigi, che impegna ciascuno dei paesi partecipanti a mantenere una riserva di petrolio per assicurare la continuità del mercato mondiale. Più di recente, la scoperta della tecnica del “fracking” ha rilanciato gli USA al vertice dei produttori mondiali di carburanti, avanti all’Arabia e alla Russia, e al loro ritorno dal 2020 ad essere esportatore netto di prodotti petroliferi. Anche se le prime tra le maggiori aziende petrolifere mondiali non sono americane, metà delle prime dieci per valore finanziario lo sono: Exxon è la quarta, seguita a ruota da due europee (Total e BP), e altre quattro americane, e quasi otto milioni di posti di lavoro sono assicurati dal settore energetico americano. Ovviamente il potere delle aziende petrolifere è leggendario, così come fu quello del carbone, ma mentre il carbone è ormai in forte declino, il petrolio non lo è: ha un ruolo importante nella chimica, e poi l’auto è ancora un veicolo a benzina, anche se con ritmo accelerato si sta convertendo all’elettricità. Mancano ancora 150.000 stazioni di rifornimento, e le auto elettriche sono appena all’inizio della traiettoria verso il veicolo essenziale e funzionale per tutte le famiglie, l’erede del “Modello T”.

L’automobile. La vastità stessa del paese e la scarsa densità della popolazione (un sesto dell’Italia) fanno sì che il trasporto di beni e persone, in assenza di un capillare trasporto pubblico, debba essere soddisfatto in larga misura dai cittadini stessi: la dispersione della popolazione rende infatti poco praticabile l’idea di una rete ferroviaria capillare, e invece (dai tempi di Eisenhower) impone l’esistenza e lo sviluppo di una vasta rete stradale. Fiorisce così il mito individualistico del grande viaggio americano, ma anche la servitù dei cittadini nei riguardi dell’auto.

Qui, salvo nei grandi centri urbani, si va al lavoro in macchina. Il legame con l’auto, e quindi col carburante, non è il risultato dell’indulgenza ma della necessità. Non averla, o essere privati della patente, può significare isolamento e disoccupazione, e disoccupazione in America significa spesso non solo perdita del reddito, ma anche perdita della copertura sanitaria, normalmente legata al posto di lavoro. Si potrebbe dire questione di vita o di morte. Il dominio dell’automobile – scatenato da Henri Ford ormai un secolo fa – è saldo; e con esso, quello della benzina. Il prezzo del carburante non sarà il miglior indice econometrico, ma tocca direttamente la vita della maggioranza della popolazione degli Stati Uniti ed è perciò quello politicamente più esplosivo.

Il Re Carbone. “Old King Cole” è un fittizio monarca che appartiene alla tradizione popolare del Sud: è un gioco di parole tra Cole, cioè Nicola, e coal, cioè carbone. I suoi sudditi lo rimpiangono, perché il duro mondo delle miniere disperse tra i monti Appalacchiani ha offerto loro per un paio di secoli un reddito, una dignità, e l’isolamento dal resto del paese e dai suoi inquietanti progressi. Ora questo mondo è finito, anche se la fuga dalle miniere si è attenuata, ma resta una orgogliosa volontà di isolamento. Le moderne tecniche di sfruttamento “a cielo aperto” hanno devastato l’intera regione, ma gli abitanti restano caparbiamente ancorati al loro isolamento. Tra le undici “nazioni” che secondo lo storico Colin Woodward compongono l’America, la “Grande Appalachia”, che va dalla Virginia al cuore del Texas, è un contenitore per la ribellione che sopravvive nel vecchio Sud, nei suoi vari aspetti: nella politica, vuol dire ostilità al cambiamento, anche quando il lato ‘proletario’ dei loro cittadini li porta ad eleggere dei Democratici. Ne ha fatto le spese Biden nel primo biennio, quando i suoi maggiori progetti sono stati stroncati con l’aiuto di questi voti democratici; vedremo se il secondo biennio consentirà qualcosa di meglio.

Elettricità vs. fossili. Nell’insieme, gli americani sono sensibili all’idea di un sistema energetico alternativo a quello attuale. La transizione verso le energie pulite piace a un pubblico in misura crescente aperto verso questa alternativa, specialmente nelle zone dove sono già presenti offerte in quel senso. Anche in questo caso, come già per i combustibili fossili, gli americani sono fortunati. Il Dipartimento dell’Energia stima che il potenziale di sviluppo sul territorio americano assicuri una capacità di generazione 100 volte superiore alla attuale domanda, quindi presumibilmente capace di alimentare agevolmente il fabbisogno futuro.

Le energie rinnovabili, secondo le stime del governo, dovrebbero raggiungere e superare quelle tradizionali intorno al 2050; inoltre, con la diffusione delle auto elettriche, sul mercato americano vi sono anche segni di migrazione delle aziende petrolifere verso il settore elettrico rinnovabile. Le grandi pianure della parte centrale del paese si prestano invece alla generazione eolica, che nonostante l’effetto delle onnipresenti torri sul paesaggio è abbastanza bene accolta dai coltivatori locali, i quali profittano del reddito che deriva dal fitto del terreno dove sono collocate, e dove continuano a coltivare.

Si vanno intanto diffondendo gli impianti per uso domestico (l’affidabilità della rete elettrica non essendo eccezionale) e la diffusione dei pannelli fotovoltaici si sta generalizzando, specialmente nell’ovest dove le risorse idriche sono in crisi. Le aziende elettriche hanno cominciato ad offrire programmi di condivisione, che permettono loro di mettere in rete nuova generazione senza realizzare investimenti: i privati istallano i pannelli solari, la cui produzione fluisce nella pubblica rete, e in cambio hanno accesso gratuito e garantito a quest’ultima, evitando così di dover investire in accumulatori.

Infine, le auto elettriche non fanno più scena; se ne ammira la silenziosità e lo spunto sull’autostrada, e cominciano a diffondersi i centri di rifornimento.  Il costo dei nuovi veicoli, lentamente, sta calando sotto i 30.000$ con l’apparizione di modelli più utilitari. L’astuzia di Elon Musk è stata di non imitare Ford, che offriva l’auto a portata di tutti, ma di cominciare collocando la sua auto al top della moda, a portata dei pochi: ha scatenato così il desiderio di tutti, e sta funzionando.


Francesco Olivieri è stato un diplomatico italiano che ha lavorato negli Stati Uniti, in Venezuela, a Bruxelles, in Cina, in Italia per il Ministero del Commercio Estero. È stato ambasciatore in Cecoslovacchia (poi ristretta a Cechia) e in Croazia, quindi Consigliere di politica estera del Presidente del Consiglio e per tre anni Sherpa del G8, infine ambasciatore all’OCSE, alla Agenzia Spaziale Europea e alla Agenzia Internazionale per l’Energia. Lasciata la Farnesina, ha lavorato con l’Enel in Italia e poi nuovamente negli USA, dove ha aperto la sede di Washington dell’azienda italiana. Ha scritto le “Lettere da Washington” per Il Commento Politico con il nom de plume Franklin, mosso dall’istintiva simpatia per un grand’uomo che aveva sense of humor, nella sua vita era stato un diplomatico di successo e per di più aveva – come Franklin – l’abitudine di inventare congegni pratici, nel suo rifugio in Pennsylvania.

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