di Niccolò Rinaldi
BRUXELLES – Il libro dell’energia europea deve essere ancora scritto, è una pagina in cui si sono già versati fiumi di inchiostro ma che pare non avere né inizio né fine. Né, soprattutto, un vero contenuto. Analisi di centri studi, relazioni del Parlamento Europeo, documenti della Commissione, decisioni del Consiglio, dati statistici di Eurostat e molto altro, producono una massa di informazioni e di idee che sarebbe qui impossibile riassumere, appartenendo alla dimensione del flusso continuo, di un magma che finora nessuno è riuscito a canalizzare in una vera politica dell’energia. Ne sono testimoni gli ultimi balletti istituzionali, le decisioni del Consiglio, le esitazioni ben note della Commissione, le posizioni in buona parte inascoltate del Parlamento Europeo, le divisioni ancora non conciliate fra i vari interessi degli Stati membri, insomma, l’inconcludenza di un dibattito che dura da molto tempo. Troppo, al cospetto di quanto abbia effettivamente partorito.
Così l’energia è il cubo di Rubik dell’Unione Europea: i sei colori corrispondono ad altrettante politiche: mercato e concorrenza, produzione industriale, ambiente e contrasto ai cambiamenti climatici, sicurezza, politica estera, ricerca. Sei lati che restano mescolati gli uni sugli altri, senza alcuna armonia.
La matassa è talmente intricata che chiunque, anche legittimamente, può rivendicare che sia la sua visione a prevalere. Non c’è alcun price-cap, ma il Consiglio ha deciso che ve ne sarà uno temporaneo, mentre la Commissione nicchia, e la formula concordata è l’enigmatico “temporary dynamic price corridor on natural gas transactions to immediately limit episodes of excessive gas prices, designed in a way so as to not jeopardise security of supply and increase gas consumption, among others”. Si rimanda peraltro al 2023 “a new complementary price benchmark by early 2023 that more accurately reflects conditions on the gas market”. Gli acquisti collettivi dovrebbero essere almeno per il 15% del fabbisogno, ma rimangono largamente basati su un meccanismo volontaristico. La comprensibile enfasi sulle energie rinnovabili si confonde con i dubbi amletici su quanto pulita sia l’energia atomica. Quest’ultima a sua volta racchiude in sé aspetti difficilmente conciliabili – l’autonomia strategica che garantisce, l’ormai sicurezza strutturale degli impianti di nuova generazione, ma anche i costi di avvio per chi non ne dispone o li ha chiusi da tempo, e l’irrisolta questione dello stoccaggio a lungo termine delle scorie.
Sono solo alcuni dei temi sui quali “ancora non si sa”, ancora non si vede chiaro. Perfino sul futuro delle automobili non c’è consenso: sono sempre maggiori i dubbi sulla sostenibilità ambientale e sulla convenienza delle batterie elettriche, mentre si rilancia la sua ricerca sull’alimentazione a idrogeno e con biocombustibili (tanto che qualcuno potrebbe mettere in dubbio che valga la pena investire nella moltiplicazione delle colonnine di ricarica). Conosciamo, ed è tema che riappare di frequente nei documenti UE, i dati della dispersione energetica, degli sprechi tanto in sede industriale che in quella domestica – ma i lavori necessari per la sua riduzione sono lunghi e onerosi, e dunque i risparmi non certo immediati.
Si è scommesso sul gas e sul petrolio russo anche come meccanismo di interdipendenza tra sistemi che avevano bisogno di questa mutua convenienza per conoscersi meglio, avvicinarsi e stabilizzare le proprie relazioni. La scommessa era giusta, ma è stata persa nel modo peggiore. Per aggiungere altra confusione mentale a questo quadro, c’è ancora chi vorrebbe pagare le bollette del gas, del petrolio e del carbone russo, bollette con le quali Mosca arma i suoi eserciti in Ucraina. L’istituto Bruegel ha calcolato che nel mese di marzo, in piena guerra, i paesi europei abbiano versato venti miliardi di euro alla Russia in cambio dei suoi prodotti energetici, quattro volte tanto quanto nello stesso mese avevano pagato nelle varie misure di sostegno all’Ucraina. La contraddizione era ricambiata, perché Mosca forniva una energia con la quale l’Europa alimentava il suo sistema economico e produceva le armi europee inviate in Ucraina.
Quanto alla convenienza di mercato e alla sostenibilità ambientale del gas americano come alternativa parziale a quello russo, si tratta di un altro capitolo che si presta a letture assai diverse. Vi è poi il filone della letteratura che dovrebbe stabilire se da un punto di vista della sicurezza, o da quello dei valori europei, sia meglio importare energia dall’Azerbaigian o dall’Egitto, dall’Algeria o dal Kazakistan – ed è un’altra palude.
L’Unione Europea è stata più spesso reattiva che non attiva o possibilmente preventiva, ma in campo energetico l’invasione russa dell’Ucraina non ha ancora stimolato una vera risposta. Si va avanti per mezzi passi e pare di aggirarsi in un cantiere di frenetica attività dove non una singola parte sia stata compiuta, anche perché il dramma è che manca ancora il progetto.
La materia pare troppo intricata per essere decentemente affrontata e risolta attraverso una cooperazione essenzialmente volontaristica e inter-governativa. Si ritorna dunque al vecchio progetto federalista di una politica comune per l’energia, andando ben oltre l’attuale articolo 194 TFUE che rende alcuni settori della politica energetica materia di competenza concorrente. È nostra convinzione che non vi è altra maniera per far fronte alla dipendenza dalle importazioni, alla necessità di una diversificazione, alla lotta contro la volatilità dei prezzi, ai rischi nei paesi non solo di produzione ma anche in transito, alla lentezza dei progressi nell’efficienza energetica, alla necessità di aumentare la quota di energie rinnovabili, o anche solo – ed è questione cruciale seppure sulla carta tra le più semplici – all’interconnessione dei mercati energetici europei.
Dunque, nell’energia l’Europa o è una o non ne esce. Ed è paradossale che la sfida di oggi sia resa ancora più drammatica per l’Europa da un conflitto che arriva dai territori dell’ex-Unione Sovietica, quella potenza dove l’energia era forse la prima politica, il primo obiettivo per affermare la propria potenza, il prestigio maggiore – questione di sicurezza di un sistema economico e militare ma anche di sicurezza di sé.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.