È fresca di pubblicazione per Sellerio – con il titolo E d’ogni male mi guarisce un bel verso: Breve discorso su Dante, la poesia e il dolore – la conferenza tenuta il 13 luglio del 2021 dallo scrittore Fabio Stassi in occasione del festival “Dante assoluto” nella Basilica di Massenzio a Roma. Si tratta di una stimolante lezione-viaggio che, incentrata sulla Vita nova ma soprattutto sulla Commedia, parte da sentimenti ed emozioni come panico, malinconia, beatitudine, che segnano la geografia di un discorso possibile su Dante, ma sono di per sé universali.
Non è un caso che l’opera più grande e più famosa della nostra letteratura cominci in una “selva oscura” parlando di buio, paura, morte. Può allora la Poesia – e Dante in particolare – essere terapeutica? Può appunto un bel verso guarire? Sì, è la risposta, scontata ma dalla dimostrazione ben articolata dall’autore, perché la letteratura fa questo di mestiere, crea nuovi significati, non altera la realtà ma fornisce nuove lenti per vederla, nuovi concetti. È magica e quindi anche curatrice. Se ad ogni incontro nella Commedia, specie nell’Inferno, Dante prova pietà e compassione, sempre è turbato e spesso sconvolto, allora è l’umanità, la condizione umana, il “riveder le stelle”, la medicina che il Poeta trova per recuperare la “diritta via”: il farmaco è dentro di noi, come le paure. Se Dante rivive nei suoi personaggi, lo facciamo anche noi grazie alla verità dei suoi versi. Dante ci attrae perché lo sentiamo autentico. Egli sperimenta per noi il dolore ma anche l’affetto verso chi incontra, si pone in un atteggiamento che ci include: Francesca, Ulisse e tanti altri sono profondamente umani, sono lui, sono noi.
Dante fa quello che noi non siamo più in grado di fare: ascolta, come il medico prima di effettuare la diagnosi. Ascoltare è il primo strumento della cura, è già tempo di cura. E poi c’è la meraviglia quasi del bimbo, la paura, il turbamento, la compassione, e solo la parola può raccontare e far vivere tutto questo. La letteratura, la poesia, la scrittura in generale, sono il regno dell’indicibile, erigono una costruzione parallela, svelano una semantica segreta.
La grandezza della Commedia è che i suoi versi prendono subito vita, diventano immagine, azione. Leopardi e Eliot, fra gli altri, hanno evidenziato che il mondo che Dante racconta è sì, fatto di parola poetica, ma questa si fa subito immagine visiva. Gli basta spesso una sola terzina per esprimere concetti, emozioni, (ri)costruire rapporti, presentare – nel senso profondamente etimologico di rendere presente – in una storia fuori dal tempo, che è solo passata e futura, vissuti umani che ci riguardano, che (ri)vivono ad ogni lettura. Ecco perché come diceva Borges “esiste una prima lettura della Commedia; non ne esiste un’ultima”.
Sottolinea Stassi che “il lettore è il primo, e più necessario, complice dell’autore: è a lui che Dante confida tutti i suoi dubbi, le sue angosce e i suoi stupori. Con Dante, il lettore entra dentro l’opera … e da lì a tre secoli, con l’avvento del romanzo moderno, ne diventerà, con Don Chisciotte, il protagonista (pure Amleto andrà in scena leggendo un libro)”. E noi ci spingiamo a dire che con Pirandello e i suoi Personaggi addirittura lo spettatore sarà complice dell’autore, sarà autore stesso.
Ma la valenza “guaritrice” di Dante non si ferma qui: dai guasti umani e personali egli assurge a poeta nazionale e nel condannare, impietosendosi, i mali dell’uomo, si fa poi giudice, accorandosi, delle sofferenze del nostro Paese, la “serva Italia di dolore ostello”. E lo fa ancora una volta attraverso la scrittura, la parola. Con l’esilio gli hanno tolto tutto, gli affetti, lo spazio e il tempo, ma non hanno potuto portargli via il “volgare”, su cui ha edificato la Commedia, riscattato sé stesso e posto le basi del nostro patrimonio linguistico. Ne è nato quel capolavoro che sappiamo, in cui Dante è peccatore e giudice contemporaneamente, in quel viaggio ultraterreno dove lo scopo, come scrive al signore di Verona Cangrande della Scala, è “removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis”. In questa opera da medico, da psicanalista ante litteram, Dante è un uomo a disagio, forzatamente anacronistico nella vita e volutamente fuori dal tempo nella Commedia, in una eterna immobilità. E proprio nel sottolineare il tema dell’esilio, non sfugge il puntuale passaggio di Stassi sui nuovi drammatici esilii, quelli del nostro tempo. Se infatti Dante è morto a Ravenna e – ricorda l’autore – Foscolo, altro esule, a Londra, il tema dell’esilio e della morte “straniera” torna oggi, feroce, alle nostre coscienze di persone (e di lettori) nati dalla parte giusta del Mar Mediterraneo, tomba ormai triste e trista di “illacrimata sepoltura”.
Questo libro si legge tutto in un soffio ma è bello tornare indietro, leggere di nuovo, fermarsi, approfondire, consumare, direbbe ancora Borges, l’ennesima terzina, sulla “navicella dantesca”, in un viaggio terapeutico guidato dalla penna lucida e sensibile di Fabio Stassi.
Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.