In occasione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria, il prossimo 27 gennaio, il presidente della Comunità ebraica di Venezia, professor Dario Calimani, ha pronunciato ieri un importante discorso che riportiamo di seguito.
Giorno della Memoria
22 gennaio 2023 – Teatro La Fenice, Venezia
Fare Memoria non è solo inchinarsi in silenzio davanti alla storia, e non può essere il vuoto di un rito. Né si può pretendere che la memoria sia l’esibizione oscena del dolore altrui.
Per attenersi alla nudità dei fatti, bisognerebbe concentrarsi sui ben noti temi perversi che hanno dato vita, nei secoli e fino ai nostri giorni, all’antisemitismo e alle sue nefaste conseguenze: la diffusione del pregiudizio, il mito della finanza e della lobby ebraica mondiale, le teorie della razza pura, e le pratiche dell’isolamento e dell’emarginazione, fino ad arrivare all’individuazione della razza nemica che cospira ai danni della civiltà occidentale e che fa da quinta colonna tramando contro gli interessi della nazione; e poi le leggi razziali, che estromettono dalla società e dal consesso civile e trasformano le persone in reiètti e indegni, privandoli, nell’indifferenza generale, del riconoscimento sociale e dei mezzi di sostentamento, e finalmente la caccia all’ebreo, la delazione per poche lire, la deportazione, i carri bestiame, le camere a gas, i forni crematori. E il ritorno dei pochi sopravvissuti, ancora una volta fra l’indifferenza di tutti, estranei e parenti, nell’incredulità di tutti. E poi, alla fine, le commemorazioni di rito.
Ci si chiede ogni anno a che cosa serva ricordare e riproporre a sé e agli altri dolore e sofferenza, se la memoria deve essere solo un fermo immagine e non si riesce a farle assumere alcun valore per il presente. L’oscenità del dolore, appunto.
La memoria dell’antisemitismo è purtroppo memoria del presente. Diffusissimo nei social, negli stadi, nelle aule colte delle università in ambigua forma di contestazione propalestinese, fra partiti e movimenti dell’estremismo di destra e di sinistra, cui la politica ufficiale occhieggia volentieri. L’antisemitismo prende a pretesto i soliti argomenti: la finanza ebraica, la lobby, il potere mediatico, e sempre più spesso, più o meno pretestuosamente, Israele e la sua pur argomentabile politica.
Di tanto in tanto, l’inevitabile e assai tardiva presa di coscienza propone targhe a riconoscimento delle ingiustizie del passato. Targhe sulle leggi razziali, che in verità sono state leggi razziste. Targhe che non riparano nulla, perché il male è stato fatto e non è sanabile: persone e famiglie sono state espulse dalla società come corpo estraneo, umiliate, emarginate, gettate sul lastrico fra nell’imperturbabilità di tutti, e, illudendosi di potersi salvare, si sono convertite (come ai tempi dell’Inquisizione spagnola), o la disperazione le ha fatte emigrare per sempre, tradite dal loro paese, o hanno trovato soluzione ultima nel suicidio. Le targhe non riparano nulla, se non il silenzio di questi ultimi 85 anni, gli occhi chiusi di fronte alla catastrofe che, indisturbata, ha sterminato un popolo. Uno sterminio programmato in tutta Europa, non per contese territoriali o vendette etniche o scontri politici locali.
Ma il silenzio perdura, anche quando diamo finalmente voce al riconoscimento dell’ingiustizia e al sentimento di pietà. Si scrive e si parla delle leggi razziste del 1938 condannandole e citando nomi. Ciò che manca nei tardivi atti di riconoscimento, nelle targhe così come nei discorsi dei nostri politici, è, accanto al nome di chi il male lo ha subito, il nome di chi il male lo ha inflitto. Manca il nome ‘fascismo’. C’è una ritrosia, un pudore nel riconoscere il male e i suoi artefici che cresce con il passare del tempo. Come se le leggi razziali/razziste fossero state provocate da un inatteso cambiamento climatico, anziché da una studiata politica, da un preciso e criminale disegno di regime, da una meditata strategia di ammaestramento all’odio. Le leggi razziste come fossero un incidente di percorso di una politica peraltro illuminata, e non invece un atto coerente con la politica di sopraffazione dittatoriale che, dai manganelli e dall’olio di ricino, dal confino per gli avversari politici, e passando per i delitti politici (Matteotti, Rosselli), ha portato alla guerra al fianco di Hitler, alle deportazioni e alle camere a gas per ebrei, zingari, omosessuali e oppositori.
È ovviamente più facile concedere un tardivo giudizio sull’infamia delle leggi razziali – lo diciamo a chi ci governa –, piuttosto che ricordare lo sterminio della Shoah, e le responsabilità, le connivenze, i silenzi, e i milioni di morti. Se, con una breve condanna morale delle leggi razziali, si assolve il regime fascista da ogni sua altra responsabilità, magari senza neppure nominarlo il fascismo, si è poi liberi di rivendicarne la bella e gloriosa eredità.
L’Italia, dopo la guerra, non è vano continuare a ricordarcelo, ha steso un velo ignobile sulla verità. In nome di una pretesa pacificazione nazionale, si è finto che nulla fosse successo. I fascisti si son cambiati d’abito e hanno continuato a vivere tranquilli, senza che nessuno chiedesse loro di rendere conto dei crimini commessi, tutelati dal principio che si erano attenuti a una politica di Stato, di regime, avevano ubbidito a un loro ideale, non meno valido del nostro ideale di libertà. In questo spirito, Gaetano Azzariti, Presidente del Tribunale della Razza durante il fascismo, dopo la guerra fu nominato Presidente della Corte Costituzionale della Repubblica Italiana. Massima vergogna, tutt’altro che un esempio di discontinuità.
La sottile assoluzione del fascismo è avvenuta, man mano, attraverso il silenzio. Poi, rispolverando qualche crimine partigiano, o una serie di gravi vendette personali – situazioni ben diverse dall’ideale criminale di un regime – si sono pareggiati i conti fra la dittatura e chi ha partecipato alla Liberazione. Ed è questo che consente oggi a figure dello Stato, a chi rappresenta le istituzioni della Repubblica nata dalla Liberazione, di rivendicare parità di considerazione, e di disertare il 25 aprile per andare invece a Predappio a celebrare i fasti del regime, al canto di Faccetta Nera e a braccio teso nel saluto romano.
Una mancata riflessione e un mancato giudizio giuridico sulla criminalità del regime fascista permettono che cariche dello stato – fatta salva una condanna delle leggi razziali – dichiarino oggi con fiera impudenza la loro nostalgia per i bei tempi passati e la loro passione per i busti di Mussolini.
Il nostro presente istituzionale sta recuperando l’orgoglio per una storia di vergogna. La nostra Costituzione, che è il baluardo delle nostre libertà e la garanzia dei nostri diritti e dei nostri doveri, la nostra Costituzione, fortunatamente, parla chiaro a proposito di fascismo, ma i fatti, i comportamenti e le coperture politiche di movimenti estremisti violenti e razzisti dicono altro.
La mancata riflessione sulla storia del ventennio dà al nostro paese la convinzione di essere stato vittima. E invece la nostra è una storia di carnefici, al fianco di carnefici. Abbiamo colonizzato e massacrato, abbiamo usato armi chimiche, abbiamo mandato gente alle camere a gas. Non è certo la presunta bonifica dell’Agro Pontino o la costruzione di strade in Etiopia a compensare la storia di un regime persecutorio e catastrofico. Ma qualcuno, anche fra chi regge le nostre istituzioni, ha le idee confuse, o non ha studiato bene la storia del ventennio, e si sta impegnando nella riabilitazione del regime.
Il paese, in toto, deve assumersi la piena responsabilità morale del suo passato, per quanto sgradevole e colpevole esso sia, un passato da condannare senza ambiguità. La politica deve scegliere da che parte stare. E deve riconoscere che il ventennio fascista è stato un regime di carnefici. C’è invece la tendenza a minimizzare i segni.
In questi giorni il tribunale di Forlì ha assolto la donna che a Predappio indossava la maglietta con la scritta Auschwitzland. La legge Mancino, una legge dello stato, tranquillamente disattesa. È lecito chiedersi se la magistratura si stia adeguando a un clima politico nuovo. La Shoah è derisa, banalizzata da paragoni blasfemi, come se non la si dovesse considerare più la tragedia immane che è stata. Per contro, in qualche città compaiono qua e là le scritte ‘Ebrei ai forni’.
Qualcosa sta cambiando nel nostro paese. E non si può chiedere a me, ebreo italiano e Presidente di una Comunità ebraica italiana, con 246 ebrei veneziani gassati ad Auschwitz, non si può chiedere a me di non preoccuparmi, o di aderire finalmente a una memoria condivisa. La mia memoria non potrà che essere la memoria non pacificata di chi è stato sterminato senza che ancor oggi se ne capisca il perché.
La mia è chiaramente un’apprensione politica, ma è, ancor prima e ancor più, il timore del possibile degrado dello spirito di convivenza e di umanità nel Paese in cui vivo da più di 50 anni, e che, lo rivendico con tutta la mia forza, è il mio Paese. La storia della mia famiglia e del mio popolo non mi consentono di sottovalutare i segnali. Lo abbiamo già fatto in passato e l’abbiamo pagata a caro prezzo.
Quando lo spirito particolaristico nazionale viene accentuato, contro ogni spirito di coesione e concertazione fra stati, c’è spazio per il timore che venga meno lo spirito di solidarietà che, solo, può tenere unita un’Europa i cui principi fondativi sono ormai irrinunciabili. C’è spazio per il timore che lo spirito nazionalistico e l’amor di patria possano nuovamente essere usati per contrasti e insofferenze che suscitino nuova intolleranza, nuovi pregiudizi, nuovo odio; che ancora una volta si cerchi il nemico, il capro espiatorio su cui scaricare responsabilità e colpe. Tutto questo è stato, tutto questo è successo e ha dato i suoi frutti malefici. Non possiamo illuderci di essere del tutto immuni da nuove epidemie di disumanità. Alle istituzioni deputate chiediamo che non si sottovalutino episodi e atti di intolleranza e diffusione dell’odio, nei riguardi di chicchessia, e che non si minimizzino i segnali del nuovo fascismo, da qualsiasi parte politica provengano, perché il fascismo non è necessariamente un partito, come immagina la Costituzione, ma è l’abito mentale stesso del sopruso e della prevaricazione.
Oggi facciamo un atto di memoria. Fare memoria ha senso se lo si fa per l’obiettivo di una società giusta, che vede nella diversità un valore, una società solidale, che si occupa dei deboli e non li abbandona, costi quel che costi.
Fare memoria ha senso, ci diciamo sempre, se si fa tesoro del passato per riconoscere gli errori della nostra storia ed evitare di ripeterli. Ma perché questo accada il passato bisogna guardarlo in faccia con spirito di verità e senza infingimenti.
Dario Calimani