Oppenheimer ha vinto sette Oscar. Premiati il film e, tra gli altri, il regista Christopher Nolan e l’attore Cillian Murphy, interprete sul grande schermo dell’enigmatico scienziato. Dal palco Murphy ha dedicato la sua vittoria ai mediatori di pace in ogni dove. Intervistato alla fine della cerimonia, Nolan ha evitato di scendere in dettagli sul messaggio del film, osservando che il cinema, se è didattico, non funziona dal punto di vista drammatico. Ha però raccontato che, al momento di intraprendere il progetto, uno dei suoi figli gli disse che le giovani generazioni non sono granché preoccupate dalle armi nucleari: una buona ragione per puntare al successo di pubblico che poi è arrivato, eccome. Si stima che gli spettatori di Oppenheimer a livello globale siano stati finora almeno 100 milioni. Immaginiamo che dopo gli Oscar molti altri lo vedranno in sala o sulle piattaforme online dove è già disponibile.
Per tanti, forse troppi, i film costituiscono la principale fonte di notizie d’argomento storico, da cui trarre, si spera, occasioni per riflettere sull’attualità. Quello di Nolan è incentrato sulle vicende professionali e personali di colui noto come il “padre della bomba atomica”, J. Robert Oppenheimer, direttore dei laboratori di Los Alamos cuore del Manhattan Project. Vengono scandagliati i suoi tormenti, le sue non poche ambiguità, se ne illumina lo spessore intellettuale, si rende giustizia dell’ostracismo di cui fu vittima nel dopoguerra per motivi politici. Era senz’altro sfaccettata la figura del celebre fisico su cui cadde la responsabilità ultima di esperimenti destinati ad aprire una nuova era dell’umanità, che la scienza rese per la prima volta capace di annientarsi. Nel corso del film sono numerosi i riferimenti al quadro bellico, ai passaggi che scandirono l’esecuzione dei piani per lo sviluppo e l’utilizzo della “bomba”, agli imperativi strategici che avrebbero presto comportato l’accumularsi di arsenali dall’immenso potenziale distruttivo, che lo stesso Oppenheimer cercò inutilmente di avversare. Tali riferimenti sono talvolta obliqui, parziali, oppure carenti nel restituire la complessità delle scelte operate, e inevitabilmente non mancano gli occasionali cedimenti alle logiche del puro intrattenimento. Nondimeno, la narrazione ha il pregio di indagare non solo la personalità del protagonista, ma anche quegli eventi epocali spesso oggetto a posteriori di giudizi corrivi. Ciò riveste una discreta rilevanza per l’oggi. Il panorama internazionale è scosso da crisi che coinvolgono direttamente le potenze nucleari e ripropongono improvvisamente gli spettri del passato.
La visione di Oppenheimer offre una quantità di spunti utili a riaprire pagine di storia cruciali e, s’intende, terribili. Qui mi limiterò ad approfondire una scena chiave per quanto riguarda le implicazioni pratiche, etiche e strategiche del ricorso all’arma atomica, riallacciandomi infine al discorso accennato in merito alla percezione della minaccia nucleare da parte dell’opinione pubblica. La scena in questione ritrae una riunione del “comitato a interim” presieduto dal segretario alla Guerra Henry Stimson, in cui sedevano, oltre ad alti ufficiali e funzionari, Oppenheimer e altri fisici di punta del Manhattan Project in qualità di consulenti. Vi si toccano alcuni nodi fondamentali relativi a modalità ed eventuali conseguenze del bombardamento atomico.
«La tempesta di fuoco su Tokyo ha ucciso 100mila persone, in maggioranza civili», osserva Stimson aprendo la riunione. Si riferisce al raid effettuato nella notte tra il 9 e il 10 marzo 1945 sulla capitale del Giappone, dove interi quartieri in gran parte costruiti in legno furono avvolti dalle fiamme e ridotti in cenere. Circa 300 velivoli sganciarono ordigni incendiari per un totale di oltre 1.600 tonnellate; rientrati dalla missione, si dovette disinfettarli per scacciare l’odore di carne bruciata che aveva nauseato gli equipaggi. A Tokyo si perfezionarono tecniche accuratamente congegnate per massimizzare l’efficacia del napalm, sperimentate in Germania con esiti devastanti specialmente ad Amburgo e Dresda, e applicate a una sessantina di altre città giapponesi. Il numero dei morti fu pressappoco quello citato nel film: un “record” superato solo a Hiroshima. In fatto di vittime civili, l’impiego di una singola bomba, ancorché straordinariamente potente, invece di migliaia, sostanzialmente non alterava il già pesantissimo bilancio dei bombardamenti alleati.
Stimson continua con tono apprensivo: «Mi preoccupo per l’America quando facciamo certe cose e nessuno protesta». Effettivamente negli archivi vi è traccia di suoi turbamenti, come pure dell’attenzione che egli prestò alla complicata partita per la resa del Giappone, sebbene tutto ciò traspaia solo in parte sullo schermo. Nella sequenza è soprattutto Oppenheimer a spiccare per lucidità circa le conseguenze materiali e psicologiche delle imminenti esplosioni nucleari. In proposito, apprendiamo di un’alternativa allo sganciamento dell’atomica sui centri urbani: una detonazione a largo della baia di Tokyo per dimostrarne la potenza. Il comitato, tuttavia, la ritiene eccessivamente rischiosa: qualora l’innesco non avesse funzionato, il fallimento sarebbe stato plateale. In effetti, l’opzione non venne mai seriamente presa in considerazione dai vertici politici e militari, e interpellati al riguardo, Oppenheimer e altri suoi colleghi tra cui Enrico Fermi, la scartarono. Nel film Stimson chiude comunque la faccenda cambiando bruscamente discorso. Passa alla lista dei possibili bersagli, quelli veri, e comunica ai membri del comitato la sua decisione di escludere Kyoto, per l’importanza di quella «magnifica città» dal punto di vista culturale e perché proprio lì aveva trascorso la luna di miele. L’aggiunta di una facezia un po’ paradossale, date le circostanze, contribuisce a fare del segretario alla Guerra un personaggio tra il cinico e il banale. In realtà visitò Kyoto un paio di volte negli anni venti, accompagnato dalla moglie, e durante la guerra ne comprese il valore in termini identitari, da preservare in vista dell’occupazione postbellica, tant’è che si batté a lungo per risparmiarla, riuscendoci, ma non vi andò mai in viaggio di nozze. Nel prosieguo della scena Stimson riporta informazioni in suo possesso riguardanti l’atteggiamento dei giapponesi – «intrattabili», lungi dall’arrendersi nonostante l’inevitabile sconfitta – e concorda con altri sull’opportunità di ricorrere all’atomica per evitare un’invasione del Giappone, estremamente costosa non solo per gli americani. Qui, di nuovo, il personaggio cinematografico è abbastanza lontano da quello reale, che intravedeva spiragli per una resa ed era sensibile, ad esempio, all’attaccamento del popolo giapponese verso l’imperatore Hirohito, la cui sorte costituiva uno dei principali problemi sul tappeto, mentre l’esigenza di evitare una sanguinosa invasione, per quanto certamente sentita e inoltre offerta a posteriori come giustificazione degli attacchi su Hiroshima e Nagasaki, non figurava come unico obiettivo del governo americano. Del resto, non se ne escludeva l’eventualità anche dopo un utilizzo dell’atomica, perché troppo incerta appariva la situazione sia sul piano militare che diplomatico.
Tra le incognite vi era poi un’altra invasione, quella delle truppe sovietiche in Manciuria. Alla conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, si era stabilito che, una volta sconfitta la Germania, i sovietici avrebbero denunciato entro tre mesi il patto di non-aggressione precedentemente stipulato con il Giappone, intervenendo nella regione a nordest della Cina sotto il controllo di Tokyo. L’Unione Sovietica dichiarò guerra l’8 agosto e il giorno seguente l’Armata Rossa attraversò il confine. Occhio alle date: Hiroshima e Nagasaki furono colpite rispettivamente il 6 e il 9 agosto; il 15 Hirohito annunciò la resa alla popolazione e il 17 rivolse lo stesso annuncio all’esercito; il 19 si chiusero le ostilità in Manciuria. Su questo significativo intreccio di eventi il film tace, anche se nella sequenza citata si discute dei rapporti tra Washington e Mosca, della probabilità di una futura corsa agli armamenti, della necessità di testare la bomba entro la metà di luglio, in tempo per la successiva conferenza a Potsdam, dove Truman avrebbe incontrato Stalin.
Sappiamo che di lì a poco il mondo si sarebbe diviso in blocchi, l’un contro l’altro armato di ordigni sempre più potenti. Il famoso discorso in cui Winston Churchill, alla presenza di Truman, dichiarò che una “cortina di ferro” era scesa sull’Europa, dal Baltico all’Adriatico, risale ai primi di marzo del 1946. Nel settembre 1949 l’Unione Sovietica condusse il suo primo test atomico. La bomba all’idrogeno, dalla carica fino a centinaia di volte superiore a quelle all’uranio e al plutonio congegnate nel 1945, fu testata con successo dagli americani nel novembre 1952 e dai sovietici ad agosto dell’anno seguente. Sappiamo anche che la guerra fredda si fondò sull’equilibrio del terrore, su ciò che gli americani chiamarono mutual assured destruction (distruzione reciproca assicurata), il cui acronimo – MAD (folle) – evocava appunto la follia insita in un’escalation. E sappiamo che la guerra fu “fredda” nel teatro europeo ma “calda” in altre aree del pianeta, a cominciare dalla Corea, dove gli americani intervennero tra il 1950 e il 1953, minacciando di utilizzare l’atomica dopo l’entrata in guerra della Cina e prima che i sovietici sviluppassero una vera e propria capacità di rappresaglia. A questo proposito, sorge un interrogativo inquietante e quasi indicibile, un’ipotesi controfattuale che il film non contempla. Ammettiamo che si fosse deciso di confidare nell’opzione dimostrativa anziché radere al suolo due città, o che per qualche altro motivo legato all’andamento delle operazioni militari, la guerra si fosse conclusa prima che si conoscessero gli effetti devastanti del fungo atomico sulla popolazione. Ebbene, senza le oltre 200mila vittime di Hiroshima e Nagasaki, quale sarebbe stata in seguito la soglia percepita da governi e opinione pubblica circa il ricorso all’atomica?
La prova provata e la conseguente reazione emotiva garantirono che tale soglia restasse alta. Tuttavia, nell’ottantina d’anni di convivenza con l’arma atomica, la cognizione del pericolo, in particolare fra la gente, ha visto alti e bassi ed è andata via via scemando. Fu acuta nel periodo più intenso della corsa agli armamenti, dagli anni cinquanta fino ai primi anni sessanta. Negli Stati Uniti raggiunse in certi casi livelli da psicosi collettiva, con punte tragicomiche se pensiamo alle esercitazioni che si svolgevano nelle scuole per prepararsi al peggio. Scolari presumibilmente terrorizzati venivano istruiti ad accucciarsi e ripararsi alla bene meglio – sotto il banco o tra i sedili dello scuolabus – non appena visto il lampo dell’esplosione. C’era pure chi la prendeva con filosofia, improvvisando un barbecue sulla spiaggia della California mentre all’orizzonte si intravedevano i bagliori di un test atomico in altitudine al largo della costa. Furono centinaia i test condotti nei deserti del Nevada e del Kazakistan, o negli atolli sperduti del Pacifico, e lentamente emersero anche le evidenze scientifiche del fall-out radioattivo e si fece quindi strada la consapevolezza del suo impatto. Poi, nell’ottobre 1962, scoppiò la crisi dei missili a Cuba e il mondo si trovò a un passo dall’abisso. Lo shock fu salutare, perché a pochi mesi di distanza venne firmato il primo trattato internazionale sulle armi nucleari, che mise al bando i test nell’atmosfera e aprì l’era della cosiddetta “distensione”, percorsa da tensioni – basti pensare al coevo conflitto in Vietnam – e tuttavia caratterizzata da rapporti appunto più distesi tra le superpotenze. Da allora cominciò però anche a prevalere nei più una sorta d’amnesia. Si continuarono a sviluppare e testare, questa volta a centinaia di metri sottoterra, nuovi e più sofisticati ordigni, ma la minaccia adesso era meno sentita che in passato. Un sussulto finale si ebbe nella prima metà degli anni ottanta, in coincidenza con l’ennesima impennata della guerra fredda prima del suo epilogo alla fine del decennio. I progetti americani per uno scudo spaziale contro i missili intercontinentali e il dispiegamento di quelli a medio raggio sul continente europeo produssero l’ultima grande mobilitazione per il disarmo.
La cinematografia ha segnato alcune tappe di questa storia: si pensi a film come Il giorno dopo e Giochi di guerra, entrambi del 1983, o al capolavoro di Stanley Kubrick, Il dottor Stranamore, del 1964. Oppenheimer ci rinfresca la memoria, tutto sommato efficacemente. Seppur con qualche imprecisione e omissione, ha il merito di raffigurare il contesto fitto di incertezze in cui si dischiuse l’era atomica, fino a riportarci nel chiuso delle stanze dove un pugno di uomini decidevano della sorte di intere città, e anche inducendo chi scrive a seguire il filo di ragionamenti articolati e a volte controintuitivi.
La settimana scorsa, di fronte alla stampa, Nolan ha regalato una nota di ottimismo, segnalando la drastica riduzione degli arsenali dai tempi della guerra fredda, ottenuta grazie alla cooperazione internazionale. Sono infatti 12mila le testate nucleari attualmente in circolazione, dal picco di 65mila raggiunto nel 1986. Purtroppo vanno registrati anche dei notevoli passi indietro. Nel 2019 Stati Uniti e Russia hanno ritrattato il bando contro i missili a corto e medio raggio concordato nel 1988. Non regge più nemmeno il trattato del 1972 sui sistemi di difesa antibalistici, dopo il ripudio americano nel 2002 e la successiva proliferazione russa, mentre quello del 1996 concernente la messa al bando di tutti i test, ignorato dalla Corea del Nord, mai ratificato dagli Stati Uniti e da altre potenze nucleari, tra cui la Cina, è stato denunciato a ottobre sempre dalla Russia. Speriamo davvero che l’opera di Nolan funga da stimolo alla riflessione.
Risorse:
Per ulteriori approfondimenti, rimando in primo luogo a Restricted Data, il blog di uno specialista della materia, Alex Wallerstein: https://blog.nuclearsecrecy.com. Oltre a quelli affrontati in questa sede, tratta altri temi interessanti: la decisione di colpire Nagasaki tre giorni dopo Hiroshima, la questione dei bombardamenti atomici come crimini di guerra, gli incidenti e i falsi allarmi avvenuti nel corso dei decenni. Vi si trovano anche le minute della più volte citata riunione del comitato a interim: https://blog.nuclearsecrecy.com/wp-content/uploads/2023/07/1945-05-31-Interim-Committee-Meeting-CTS-R04-T06-F03.pdf.
Altre due fonti sempre da Internet: un filmato del 1952 rivolto agli scolari americani, prodotto dalla Civil Defense Administration: http://www.loc.gov/item/2022604365; la sequenza, realizzata nel 1998 dall’artista giapponese Isao Hashimoto, delle ben 2.053 detonazioni nucleari effettuate fino ad allora: www.youtube.com/watch?v=I9lquok4Pdk. In cartaceo: la breve ma esauriente sintesi di J. Samuel Walker, Prompt and Utter Destruction: Truman and the Use of Atomic Bombs Against Japan, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1997; il classico studio di Paul Boyer, By the Bomb’s Early Light: American Thought and Culture at the Dawn of the Atomic Age, Pantheon, New York 1985.
Giacomo Mazzei, dottore di ricerca in storia contemporanea, ha vissuto a lungo oltreoceano, dove ha studiato e insegnato storia americana. Si occupa di relazioni transatlantiche, in particolare tra Italia e Stati Uniti durante la guerra fredda. È adjunct professor presso l’American University of Rome e caporedattore degli “Annali della Fondazione Ugo la Malfa”.