di Filippo Bocci
25 marzo 1938: Ettore Majorana ha 31 anni ed è da qualche mese professore ordinario di Fisica all’Università di Napoli, nominato per chiara fama. Di carattere ombroso, solitario, anche se arguto e spesso autoironico, Majorana invia da Napoli una lettera al suo direttore di Istituto, il professor Antonio Carrelli, dove adombra la possibilità di un atto suicida: “[…] Mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti […]”. Ne lascia un’altra più esplicita nella camera d’albergo per i suoi familiari: “Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi”. Poi si imbarca sul piroscafo per Palermo da dove, l’indomani, manda un telegramma e una nuova lettera a Carrelli – che riceve le missive tutte insieme – per rassicurarlo: “[…] Il mare mi ha rifiutato […]”, e per dirgli che sarebbe tornato a Napoli il giorno dopo, anche se, comunque, avrebbe rinunciato all’insegnamento.
Questa è l’ultima traccia di Majorana. Da allora molte sono state le ipotesi formulate sulla sorte dello scienziato. Quella del suicidio non ha mai riscosso largo credito; si è piuttosto pensato al ritiro in un convento e Leonardo Sciascia nel 1975, con il saggio La scomparsa di Majorana, ha prospettato questo scenario, attribuendo al fisico un rifiuto della scienza per aver intravisto i possibili nefasti sviluppi della bomba atomica. Si è pensato anche a una sua collaborazione scientifica con la Germania nazista, per cui nutriva forse qualche simpatia e dopo che nel 1933 aveva conosciuto il fisico Heisenberg a Lipsia; qualcuno lo ha addirittura immaginato clochard per scelta. Tutto questo fino al febbraio del 2015, quando la Procura della Repubblica di Roma, grazie a nuove testimonianze, ha stabilito l’allontanamento volontario di Majorana e la sua presenza in Venezuela almeno tra il 1955 e il 1959.

Questo lungo preambolo fa da necessaria cornice a L’atomo inquieto di Mimmo Gangemi, da poco pubblicato da Solferino Editore. Diciamo subito che si tratta di un romanzo, e che ha il pregio fondamentale di essere costruito mettendo assieme, con logica consequenzialità, un po’ tutte le teorie avanzate sulla scomparsa di Majorana. L’intreccio è formidabile nell’attribuire continuamente nuove vite, tutte diverse e tutte credibili, allo scienziato, nell’arco di circa vent’anni: volendo infatti dare per buono il riscontro del periodo venezuelano, ci sarebbero comunque da coprire gli anni tra il 1938 e il 1955.
Il sapiente plot narrativo di Gangemi, quasi una sceneggiatura, confeziona un’opera che si può leggere come un’avvincente spy story o un romanzo psicologico, senza per questo dover rinunciare alla coerenza narrativa e alla fedeltà storica. Majorana e i suoi alter ego vivono le loro tormentate esistenze tra la scaltra ferocia nazista – magnifico e agghiacciante il ritratto di Adolf Eichmann –, lo sterminio degli ebrei, la corsa alla produzione dell’ordigno nucleare.
Il protagonista, in una lunga confessione/ricordo, vive in simbiosi con una voce interna, “la creatura” la chiama, che, più o meno ascoltata, è spesso lì a consigliarlo, a incalzarlo, quasi sempre a rimproverarlo. Enrico Fermi ebbe a dire al fisico Giuseppe Cocconi che al mondo ci sono scienziati di secondo e terzo rango “che fan del loro meglio ma non vanno molto lontano”, di primo rango che arrivano a “scoperte di grande importanza”, “ma poi ci sono i geni, come Galileo e Newton. Ebbene, Ettore era uno di quelli. Majorana aveva quel che nessun altro al mondo ha; sfortunatamente gli mancava quel che invece è comune trovare negli altri uomini, il semplice buon senso”.
Ecco, la voce che puntuale assedia Majorana, “la creatura” che lo ossessiona, l’unica a chiamarlo Ettore, è forse l’incarnazione di quel buon senso di cui Fermi ravvisava la mancanza e che Gangemi ha così bene escogitato.
L’autore imbastisce il racconto su una scrittura volutamente antica, talvolta con il verbo alla fine della frase, o attraverso l’utilizzo di parole dall’accezione ormai cristallizzata, come ad esempio il verbo “cangiare”, funzionale ai lettori di oggi rimasti fermi all’Ettore Majorana del 1938, compìto e riservato professore, genio talmente visionario che già nell’anno della sua scomparsa ipotizzava l’esistenza del “fermione”, provata scientificamente soltanto una decina di anni fa.
È un libro che sembra sempre ricominciare, senza cali di ispirazione, ad ogni cambio di identità dello scienziato fuggiasco, che si mantiene peraltro fedele alla sua caratteriale, apatica misantropia. Ne viene fuori una figura profondamente introversa, a cui il genio aveva giocato lo scherzo di regalare una popolarità e un’attenzione non richieste e per lui insostenibili. Pure Gangemi ritrae, più che lo studioso, un uomo a tutto tondo, ritroso ma comunque responsabile, coraggioso di fronte al dolore personale e consapevole delle terribili conseguenze della Guerra mondiale.
Un’opera affascinante e sorprendente, una lettura originale, meritevole perché frutto solo di congetture, fantasticata sul niente, o poco più.
Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.