Alberto-Schiavone

Maria e il vuoto dopo il carcere, in “Non esisto” di Alberto Schiavone

Dedicato “a chi non sa dove andare”, Non esisto di Alberto Schiavone (Edizioni Clichy) si apre con Maria appena uscita dal carcere. Non sappiamo perché ci sia finita e che cosa abbia fatto, sappiamo solo che non vuole mai più tornarci. Si dirige dapprima dai suoi genitori in provincia, dove tutto è vecchio e desolato, anche gli animali lo avvertono e l’abbaiare dei cani è una recita stanca. La sua famiglia non la vuole più, sua madre è una “muta schiena”, suo padre non esita a mandarla via di casa, dandole dei soldi che aveva pronti per un operaio: il muro di divisione che si è alimentato per tanti anni non può essere nemmeno scalfito. “I legami sono fatti di nulla su cui c’è scritto fragile”: sono un niente che sta su in qualche modo.

Maria si dirige verso la grande città, trova lavoro, sente il bisogno dell’amore, ma è un mondo minaccioso, che non la vuole, che non la vede. Il suo (r)esistere ogni giorno è sostenuto da lunghe camminate e pedalate in bicicletta che la fanno sentire viva, lei che vorrebbe essere ma non è, integrarsi, avere una parte da interpretare ma non nello spettacolo della strada dove gli ultimi, i barboni, i dimenticati, i reietti della società sono tutti in scena senza spettatori, attori invisibili. La vita per loro è un teatro chiuso. Maria è alla ricerca di un varco attraverso il vuoto.

Immagina una “Babele”, costruendo su cartone una sorta di albergo planetario, dove si può scegliere in quale parte del mondo vivere. Il suo sogno è un caotico universo di libertà, dove si sta ovunque e si può sempre cambiare, un’ideale antitesi del carcere. Un gioco infantile che replica altri mondi, il vezzo di una bambina che, come nell’esergo di Doris Lessing, cambia continuamente i vestiti al suo orsacchiotto.

Ma il reinserimento nella società “civile”, il recupero di una vita normale è un’impresa quasi impossibile, anche per chi, come lei, è animato dalle migliori intenzioni: Maria è sì fuori dal carcere ma gli stati d’animo, i tic, persino il cielo, sono gli stessi di quando era rinchiusa. E se in prigione poteva stare ferma, doveva anzi, ora non può più. Prima era dentro ma pensava al fuori, in un certo senso poteva stare nel mezzo, ora non può più essere anonima. Maria è in un gorgo, ingoiata negli inferi come Persefone, rapita da Ade, che torna sulla terra nella bella stagione. Però per lei non c’è mito che sia consolatorio, non c’è spazio per le favole.

Il ricordo del carcere finisce paradossalmente per essere rassicurante, arriva quasi a costituire una mancanza. La prigione è un luogo che la giovane conosce, lì era qualcuno, la vita invece è sconosciuta, non ha un posto per lei. E poi fuori tutti sanno, o avvertono, chi sei stato: i carcerati hanno un vissuto che si intuisce, arriva potente, incute disagio, quasi un vago rispetto. La colpa dunque è il protagonista principe, il deus ex machina del mondo di Maria, non la si sfugge. Eppure, ragiona la ragazza, basterebbe poco: “La rivoluzione a volte è una carezza”.

Con un uso sapiente della terza e della prima persona, Schiavone plasma un linguaggio durissimo, che riesce con poco a raccontare la nuova vita di Maria ma anche ad evocare quella del carcere: qui si percepisce lo sguardo dolente dell’autore che si fa denuncia, senza però perdere mai l’approccio narrativo.

Le parole scelte da Schiavone sembrano scolpite da un blocco di granito, attinte, una ad una, da un suo vocabolario personale, come se avessero un loro significato speciale, più denso, più incisivo. La potenza delle frasi che fotografano le emozioni della protagonista è devastante, resa da periodi brevi ma che lasciano senza fiato, non consentono una replica, spesso non si fa in tempo ad assorbirli, ad incassarli come i cazzotti di un pugile. Un mondo interiore restituito da parole e immagini folgoranti.

(Maria) “si sente allo zenit di un percorso che ne ha viste tante. Acqua sotto i ponti, marciapiedi, filosofia, denti marci”.

Non esisto è un piccolo diamante, duro come sono i diamanti di valore.


Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.

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