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Mezz’ora al telefono con David Baker, il designer delle proteine

Ho avuto recentemente l’occasione di intervistare lo scienziato americano David Baker, professore di biochimica alla Washington University. Il suo laboratorio è uno di quei luoghi dove la scienza diventa progresso e innovazione. Lo ha aperto circa trenta anni fa, per approfondire la funzione e la struttura delle proteine e in particolare il processo del protein folding, ovvero come le proteine si strutturano nella loro forma attiva. Poi è andato oltre e oggi il suo lavoro è concentrato sul design di proteine: proteine che non esistono in natura, create appositamente per applicazioni nell’ambito della medicina, dell’energia, della sostenibilità. Nel corso della nostra conversazione capisco che, sebbene sia trascorso tempo da quando Baker ha avviato la sua carriera, la sua curiosità non ha perso entusiasmo e ispirazione. Il suo racconto procede spedito e il tono è quello di chi è consapevole della portata innovativa dei suoi risultati, peraltro ancora in evoluzione. “La cosa interessante – mi dice – è che le proteine esistenti in natura sono in realtà solo una minuscola frazione di tutte le possibili strutture proteiche che si possono creare. Il mondo si trova oggi di fronte a nuove sfide, alcune mai affrontate prima, per esempio la pandemia da SarsCov2, oppure l’aumento della vita media dell’uomo. Quindi c’è sempre più bisogno di utilizzare metodi e strumenti nuovi”.

Baker mi parla di metodi, strumenti e processi che hanno avvicinato progressivamente il suo staff alla realizzazione delle proteine artificiali: il deep learning; il Rosetta Fold, ossia l’algoritmo che permette di prevedere la struttura tridimensionale delle proteine a partire dalla sequenza di amminoacidi, e così via. Sono concetti tecnici e scientifici che conosco e riesco a seguirlo, ma soprattutto sono affascinata dalla sicurezza che avverto nelle sue spiegazioni, come accade a chi è consapevole di aver afferrato un sapere che farà, sta già facendo, strada nella rivelazione dei segreti della natura, della vita sul nostro pianeta e del cammino che l’uomo può ancora tracciare per combattere le malattie. Perché la costruzione di proteine artificiali è davvero un traguardo epocale: significa poter creare proteine su misura con proprietà specifiche, che possono essere impiegate in una vasta gamma di applicazioni. Queste proteine possono essere utilizzate per la progettazione di nuove terapie e anche di materiali e tecnologie che possono migliorare la vita umana e preservare l’ambiente. Le applicazioni della sua ricerca – mi dice – vanno infatti ben oltre la medicina, dove si potranno sviluppare nuovi farmaci altamente mirati, estendendosi alla sostenibilità ambientale. Si pensa alla produzione di materiali biocompatibili e al miglioramento delle prestazioni di enzimi industriali. Le proteine progettate potrebbero ad esempio essere impiegate nella creazione di sistemi fotosintetici artificiali, utilizzati per produrre energia sostenibile, oppure per degradare plastica e altri materiali nocivi nell’ambiente, offrendo quindi soluzioni innovative per i problemi ambientali globali.

In tutto questo, l’uso dell’intelligenza artificiale ha assunto un ruolo fino a poco tempo fa inimmaginabile: “ChatGPT, il nuovo algoritmo di intelligenza artificiale di OpenAI – dice Baker – ha risorse enormi, che bisogna imparare a riconoscere e sfruttare per risolvere le domande scientifiche che vogliamo porci. Ciò non vuol dire assolutamente che “la ricerca al bancone”, ovvero l’attività di ricerca sperimentale condotta in laboratorio, venga svalutata o non servano più i biologi, anzi il mio laboratorio è molto eterogeneo. Servono molti data scientists, figure professionali che organizzano e analizzano grandi quantità di dati necessari alla ricerca, quindi servono informatici e bioinformatici”. “It’s a balance!”, esclama Baker. “Il segreto – si affretta a spiegare – è trovare il giusto equilibrio, perché quando si inizia ad affrontare un problema con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, bisogna comunque essere in grado di capire di biologia e biochimica e soprattutto bisogna non perdere di vista la domanda biologica a cui stai cercando di trovare risposta”.

Induco Baker a rimanere su questo tema: qual è, dunque, la figura ideale di scienziato? Le sue parole di risposta sono nette e inequivocabili: “Lo scienziato deve essere sempre pronto a cambiare prospettiva, ad imparare nuove cose, deve essere adattabile ed è importante che le sue competenze siano trasferibili. Ad un anno da oggi, metodi e strumenti saranno già diversi dagli attuali e probabilmente sarà possibile fare cose che non avremmo immaginato. Quindi la verità è che lo scienziato deve essere veloce nell’apprendere, appassionato e adattabile. Anche perché – ride – altrimenti tutto sarebbe noioso”.

Infine, la grande importanza del lavoro di squadra: “Il mio team è altamente cross-functional (trasversale, inter-funzionale), infatti scienziati con formazioni diverse si interfacciano e collaborano per rispondere a domande a cui probabilmente, se lavorassero individualmente, non troverebbero risposta perché devono essere esaminate da angolazioni diverse. Per questo le equipe debbono essere multiformi, agili, elastiche.”

“David – lo interrompo – pensi che avresti potuto fare tutto questo in un altro Paese? Per esempio, pensi che in Italia avresti avuto le stesse possibilità e lo stesso successo?

Ride, poi riprende: “È una domanda molto complessa. Ci sono tanti fattori che contribuiscono, e non conosco a sufficienza il sistema italiano per poter dare una risposta completa. Però, in primo luogo sono sicuro che gli scienziati vogliono poter fare affidamento su fondi statali o privati”. Mi dice che fino a pochi anni fa il tipo di ricerca che il suo team portava avanti non era finanziata da molti fondi governativi, perché era troppo innovativa e con risultati ancora troppo poco tangibili, per cui la maggior parte delle risorse proveniva da fondazioni filantropiche, in particolare mi cita la “Bill and Melinda Gates Foundation”, che ha supportato a lungo il loro lavoro.

“Un secondo fattore, ancora più importante del primo – prosegue – è che gli scienziati vogliono essere liberi di scegliere indirizzi e obiettivi della loro ricerca. All’estero, già con una posizione di professore associato, puoi perseguire una tua linea di ricerca indipendente. L’indipendenza da qualunque tipo di condizionamento per noi è la priorità. Quindi, se l’Italia fosse stata in grado di assicurare questi due pilastri su cui si fonda un buon laboratorio di ricerca, allora avrei potuto pensare di condurre il mio percorso anche nel vostro Paese.
Però io ho avuto tanti studenti italiani nel corso degli anni, alcuni eccezionalmente preparati e bravi, ma fra loro quelli che hanno intrapreso una carriera accademica all’estero hanno poi scelto di non tornare in Italia, per quale motivo secondo te?”.

Così Baker prende a farmi domande sul sistema di ricerca italiano e insiste – quasi uno scambio di ruoli tra intervistatore e intervistato – per sapere la mia opinione sul sistema di ricerca nel nostro Paese e conoscere la mia esperienza di “cervello in fuga”, uno fra i tanti.

Cerco di riassumere il lungo elenco di lacune che vanno dalla mancanza di risorse economiche alle tediose pratiche burocratiche che penalizzano anche la ricerca scientifica, alla mancanza di agilità e mobilità nei percorsi accademici, e via seguendo. Ma così l’intervista va fuori tema, e lo dico a Baker. Mi risponde che, invece, è soprattutto di questo che si deve parlare, perché è dove gli scienziati trovano ostacoli che bisogna indagare e poi puntare ad ottenere risorse e autonomia, perché la ricerca faccia ancora passi avanti verso il progresso e l’innovazione.


Giulia Di Bartolomei, Ph.D in Neurobiologia all’università di Basilea, nasce a Roma nel 1992. Si laurea nel 2014 in biotecnologie e poi nel 2016 in biologia molecolare all’Università di Roma “La Sapienza”. Dopo una tesi sperimentale condotta tra l’EMBL (European Molecular Biology Laboratory) di Monterotondo-Roma, ed Heidelberg in Germania, vince la borsa di studio Giovanni Armenise per attività di ricerca in laboratorio all’Harvard Medical School di Boston. Autrice del modulo di formazione Bioinformando, progetto svolto in alcuni licei di Roma e provincia, che combina la biologia e l’informatica e si propone l’obiettivo di avvicinare gli studenti alla realtà della ricerca scientifica.

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