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“Novanta giorni”, in libreria il nuovo romanzo di Massimo Andolfi

Al suo secondo romanzo di recente pubblicazione per l’editore Affiori, Massimo Andolfi, fino a qualche anno fa lontano dalla scrittura letteraria, ne è compiutamente dentro. Novanta giorni è una storia orchestrata nella sequenza prologo, svolgimento, conclusione, nella quale non mancano i colpi di scena (o di fortuna, come si vedrà).

Costituzionalista, al centro della macchina statale per una intensa e stimata carriera, Andolfi è stato uomo delle istituzioni, consigliere parlamentare, responsabile dei lavori dell’Assemblea e poi capo della comunicazione del Senato, assistente personale del Presidente Cossiga e curatore dei rapporti tra la Presidenza della Repubblica e le Camere durante il settennato Scalfaro. È tuttora membro permanente del G124 istituto da Renzo Piano e consigliere di amministrazione della Fondazione Ugo La Malfa. Ebbene, in un libro che fin dall’inizio promette di concedere molto alla vena romantica, tutto questo non viene messo da parte, anzi trova spazio nel dispiegarsi del racconto e si afferma infine in una complessa riflessione, diremmo una poetica, sui valori della vita dove l’impegno civile, sostenuto da una sperimentata passione politica, incrocia e poi si accompagna ai sentimenti privati.

E però, dei sentimenti privati, i due protagonisti hanno dimenticato da tempo le avvisaglie, il linguaggio, i turbamenti, e quando questi riaffiorano li cacciano indietro o camminano loro accanto fingendo di non riconoscerli.  Ma il tratto dello scetticismo è breve: bastano, in fondo, novanta giorni. E ci si metterà la fortuna, come talvolta accade, ad ordire la tela dell’incantamento.

Raccontiamo allora qualcosa, senza troppo rivelare, di questa storia: Carlo, manager di una società di consulenza e comunicazione aziendale da lui fondata, va a Venezia per concludere un affare e lì, al Lido, compra un biglietto della lotteria “in un bar dove i  vecchietti che giocano formano un quadro antico che ispira tenerezza”: ed ecco qui uno dei primi bozzetti fra i molti che seguiranno su personaggi e luoghi di una città che Andolfi saprà ritrarre nella peculiarità delle calli e delle piazzette appena stiepidite dal sole che filtra nell’umidità dell’aria. Ma andiamo avanti: quel biglietto è vincente, trecentosettantacinque milioni di euro che, dopo aver provocato nell’uomo un comprensibile panico, diventano il fulcro del romanzo: cosa farne? Come impiegarli? Entra in scena Vera, la compagna di studio all’università. Lei, vedova di un bravo marito al quale ha voluto solo bene, si è trasferita da qualche tempo a Venezia dove prosegue una brillante carriera di notaio e conduce giornate cadenzate da lavoro, molto sport e qualche sosta in trattoria, dove però nessuna deroga è concessa al suo sanissimo regime alimentare. Insomma, Vera è rigorosa, caparbia, non ha tempo per esperienze sentimentali e non ne ha voglia. Carlo, però, decide di chiedere proprio a lei un aiuto per gestire la grande vincita. E qui comincia l’avventura. Un’avventura che non è solo quella di due persone che dopo aver scartato ogni ipotesi di innamoramento e amore, devono affrontare la sfida di un sentimento deciso a rompere il ghiaccio delle loro corazze, ma anche quella di una sensata strategia sulla destinazione del gruzzolo della lotteria. A conclusione di un tumultuoso lavorio di menti e di cuori, Carlo ha ben chiaro lo scopo, lo espone a Vera ed è qui che lo sentiamo parlare della fortuna che lo ha investito come di “un’occasione irripetibile per colmare l’unico vero vuoto della mia vita” e via avanti attraverso pagine che ripercorrono le illusioni frustrate del Sessantotto e rievocano le canzoni del sogno di libertà e giustizia sociale andato in frantumi, esaminano i guasti storici della divisione del mondo in blocchi fino alla caduta dell’impero sovietico e  all’avvento in occidente di un capitalismo “miope” e “senza briglie”. Nessuno di questi ragionamenti è fine a sé stesso, perché Carlo, concreto, lungimirante, granitico nelle sue convinzioni (dicevamo Andolfi uomo delle istituzioni) giunge a disegnare un grande e articolato progetto umanitario e di sviluppo su cui riversare i suoi soldi. Ma non sveliamo oltre.

Diciamo, invece, che tutto questo avviene mentre, con il pretesto della consulenza notarile, Carlo si avvicina sempre più a Vera e con lei passa giorni dedicati a regate in barca e a svaghi nell’atmosfera quasi incantata della città dei dogi. All’inizio del romanzo, quando per la prima volta arriva a Venezia, Carlo chiude gli occhi per ritardare la visione della bellezza: “Per nulla al mondo si perderebbe la sensazione che prova chi scende dal treno e attraversa la stazione di Santa Lucia, l’iperspazio di soli 50 metri, che in un baleno trasporta il viaggiatore dalla realtà del terzo millennio al mondo delle favole”. Insomma quasi una premonizione: Venezia sarà il mondo della favola che si avvera, come quando nel film sognante di Vincent Minelli la nebbia dirada nella valle di Brigadoon, scenario di lì a poco di un grande amore.

Perciò, mentre l’organizzazione del progetto di investimento del denaro procede con lucida rapidità, l’autore frena il ritmo della scrittura quando descrive le panoramiche traversate in traghetto dei due protagonisti o le molte serate a cena in locali alla mano o di lusso, in ogni caso luoghi dove il cibo definisce un tessuto sensoriale che avvolge l’incombere di un sentimento nuovo. Sono gli attimi in cui i protagonisti trovano “la maglia rotta nella rete che ci stringe” ed è per intero trascritta qui, e quanto efficace, una delle più belle liriche del grande poeta.

Infine, dunque, tutto torna, il cerchio si chiude: parlavamo di poetica e tale compiutamente è quella rivelata da Massimo Andolfi in questo suo libro: una visione del mondo che affiora nitida solo quando l’altro, o l’altra – il “tu” della poesia montaliana (“Cerca la maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!”) – irrompe nella vita del protagonista. Solo allora tornano a galla, mosse dal sentimento d’amore, anche le passioni neglette, i progetti di impegno civile, la politica considerata una “scelta estetica”, lo sguardo verso i luoghi del mondo e i popoli più svantaggiati. 

“I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando”, fraseggiava d’altra parte il Divin poeta. Più chiaro di così?

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