E se non basta neanche Philip Roth… – no, dico, Philip Roth! – chi ci potrà salvare?
Pubblicato da La Nave di Teseo, Per futili motivi di Sapo Matteucci, toscano, giornalista per importanti testate e scrittore, è un viaggio, più una scorribanda direi, financo una devastazione, all’interno della famiglia Mastorna, e già nello “stornare” il cognome suggerisce l’attrazione all’evitamento di chi è oppresso da una quotidianità vuota, vive una vita che non è la sua, facile preda degli eventi, schiavo delle persone.
D’altronde Sapo è anche il nome del protagonista e ci dice subito, nell’incipit, che vive «“a un certo punto”, in mare aperto», «nella temibile ambiguità del gerundio». È in pensione dal lavoro, e quindi inghiottito dalle nevrotiche – è dire poco – dinamiche familiari. Un figlio, Ernesto, è stato mandato, a prezzo di inesorabili sensi di colpa, a studiare all’estero. È il bravo ragazzo, la vittima perfetta che ripaga i genitori dell’affetto ricevuto «doppiamente ustorio perché pienamente appagato, soddisfatto dall’oggetto amato», finendo col far loro da padre: «Un amato ingabbiato dall’amore». La figlia Costanza, invece, se non è la terrorista di Pastorale americana di Roth poco ci manca, perché sparge terrore a piene mani, impermeabile allo studio, senza orari, con un fidanzato improbabile, spesso scompare di casa, mentre la moglie del nostro eroe si preoccupa sì, ma delega l’azione al marito agnello sacrificale ed è, di fatto, un altro vettore ansiogeno, tanto per non farsi mancare nulla. Buone e care in fondo le due, ma carnefici in superficie.
Si regge tutto in bilico su un equilibrio perverso, dove occorre spesso anche stare attenti a trovare le parole giuste: «Scelgo il tono fermo-confidenziale».
La famiglia non può esistere «senza scene e senza maschere», ci vuole un attore, e quello «migliore è il più colpevole». La famiglia è mielosa, castrante, criminale: «La famiglia, gabbia di conformismo, d’infamie meschine, inzuccherate dall’affetto, chiave d’ogni aberrazione: ti voglio bene, perciò soffri pure. Matrice d’ogni repressione: sessuale, culturale, immaginativa. La famiglia, questa associazione a delinquere che ti legava nella camicia di forza “del bene, del meglio, del giusto, dell’utile”».
A che vale allora agire ma anche solo reagire?: «E chi ha voglia di interrogare, ragionare, replicare…».
E ancora un po’ dal vangelo secondo Roth, ma anche un po’ alla Svevo (quanto è inetto Sapo… ma fino ad un certo punto e poi in fondo finisce che gli va bene!) non può mancare lo psicoanalista, si chiama Sbalza, nome che fa pendant di fuga con Mastorna, tipo strano, è un po’ che non si fa pagare e ci si chiede nella scorrere delle pagine chi sia, o se esista veramente.
E poi c’è la città nemica, una Roma altro da sé che si oppone, «piena di tentacoli spappolati, traverse cieche, transenne, materassi sui marciapiedi, indicazioni stradali sempre dopo gli incroci». I rari piaceri Sapo li trova nella creatività – è un ottimo cuoco – nell’ascoltare musica, nel fare la spesa al mercato: Matteucci fotografa lì una quotidianità fatta di piccole cose, di interazioni superficiali, casuali ma rituali, che fanno aggregazione, una socialità appena spensierata, un pizzico malinconica:
«Fra una fettina di prosciutto e l’altra, un tocco di marzolino, mezzo chilo di calamari, misticanza e radicchi, non contava quello che le persone compravano: non ci si sentiva soli».
Messo tutto questo e tanto altro insieme, lo scrittore tira fuori un romanzo straordinario, coltissimo, spesso divertente, sicuramente dissacrante, dove il Sapo protagonista sfoga la frustrazione con il disprezzo, e allora le Ramblas di Barcellona equivalgono a ordinarie strade romane, «nient’altro che vialetti tra le aiole, corsi Trieste senza pini…».
Non c’è per lui neanche la soddisfazione di un dramma familiare come si deve, ma solo una scialba parodia, una «Pastorale amatriciana» (inarrivabile!), per uno “Svedese” de noantri, in un intreccio da Philip Roth dei poveri.
C’è una via d’uscita? Lo lascio scoprire al lettore di questa ossessiva baraonda domestica, con annessi animali da compagnia, un vero gioiellino pieno di metafore calzanti, parodie irridenti, esternazioni brucianti, dove ogni pagina riflette il genio dell’autore, colorando “gli arabeschi arruffati della vita”.
Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.