Lettera da Washington
di Franklin
Due giorni fa il Presidente ucraino Zelensky ha parlato al Congresso americano, a camere riunite, s’intende virtualmente, un paio di settimane dopo lo stesso evento condotto da Biden, impegnato nel consueto “State of the Union”. Qui comincia e qui finisce l’analogia. L’intervento di Zelensky ci fa chiedere se nelle nostre democrazie del XXI secolo il Capo dello Stato non debba fatalmente cercarsi tra i “performers”, figure capaci di catturare l’attenzione, volgerla all’uso previsto, compattare l’opinione dei molti fino a renderla l’opinione di tutti. Zelensky, che fino a pochi anni fa era noto come una popolare figura mediatica, è balzato sullo stesso palcoscenico di Churchill, Kennedy, e altri che hanno dedicato la loro vita all’arte della leadership politica dei popoli. Chi leggesse oggi la trascrizione del discorso probabilmente concluderebbe che si è trattato di un buon discorso ben preparato, da qualcuno che conosce i punti sensibili dell’anima degli americani, e li sfrutta a dovere; assomiglia ai discorsi simili fatti da Zelensky ad altri leader, con opportuni riferimenti alla storia di ciascuno, nondimeno efficaci.
Il confronto con il discorso di Biden è impietoso, anzitutto per il pathos del momento, abbastanza potente da far applaudire l’intero legislativo americano – per una volta senza distinzione di parte – salvo al punto in cui Zelensky ringrazia il collega americano per l’aiuto finora prestato. Sarebbe sbagliato quindi concludere che Zelensky […]
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