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Quanto pesano i sentimenti secondo Liz Moore

di Filippo Bocci

La parola peso può assumere significati o sfumature differenti. C’è la misura numerica determinata dalla bilancia, o il peso inteso come valore che si può dare a una persona o a una cosa, ma poi esistono i pesi gravosi, i fardelli, soprattutto quelli morali come il senso del dovere, la responsabilità, da cui difficilmente si può scappare. Per non parlare dei piaceri controllati, delle schiavitù organizzate, nient’altro che imposizioni mascherate. Infine, più subdoli, ci sono i sensi di colpa striscianti anche nelle relazioni sociali, quando l’affetto che riceviamo ci spinge – e un po’ costringe – a contraccambiare, a metterci in gioco, perché l’amore sa essere contagioso.

La giovane scrittrice americana  Liz Moore ci immerge in tutto questo ne Il peso pubblicato da NN Editore. Ne sono protagonisti Arthur Opp, ex professore universitario, recluso volontariamente in casa, sovrano assoluto tra cataste di cibarie che gli hanno fatto ormai superare, anche abbondantemente, i duecento chili di peso. Quest’uomo, dopo aver perduto la mamma e la sua migliore amica, ha fatto della sua casa un bozzolo protettivo, è diventato la sua casa. Ha scelto la solitudine perché ha paura, anche di uscire dalla sua abitazione, e invece avrebbe bisogno di parlare, e raccontarsi sarebbe per lui effettivamente salvifico, lo riporterebbe nel mondo, con gli altri, fuori dal bozzolo.

L’altro personaggio principale è il giovane Kel (anche lui all’anagrafe Arthur) Keller. È collegato ad Arthur Opp attraverso sua madre Charlene Turner, che in passato è stata allieva del professore con cui è rimasta in contatto epistolare. Charlene è una persona e una madre fondamentalmente buona ma instabile, sempre bisognosa di denaro, vittima dell’alcool. Kel non ha niente e nessuno su cui appoggiarsi a parte sé stesso, e si sente continuamente sotto esame per le troppe responsabilità che la madre gli impone.

Su queste premesse l’autrice delinea intorno ai due protagonisti altri personaggi importanti, per niente di contorno. Essi sono anzi indispensabili perché Arthur e Kel, ognuno a suo modo, possano spiccare il volo, rompere la solitudine che fa da scudo ai dolori che la vita ha riservato loro. E se Arthur Opp ha creato un caso di sé stesso, autosegregandosi e crogiolandosi nei suoi vizi, Kel Keller, che non ha avuto un padre e ha una madre che definire fragile sarebbe poco, ha finito col cercare affetto e modelli dove possibile. Forte di una velleitaria autosufficienza, non se la sente di aprirsi agli altri, dire la verità su sua madre, abbandonarsi a un dolore consolatorio e finalmente chiedere aiuto. Del resto, se le cose non le nominiamo non esistono, per questo Kel (e anche Arthur – i due sono immagini riflesse, due esseri umani affamati di affetto) preferisce, di più, è costretto a mentire a tutti. Amore, voglia di dolcezza, solitudine, sensi di colpa, tutto si mescola e ribolle nella mente e nel cuore di questo ragazzo coraggioso, cresciuto troppo in fretta. E mentre Kel non ha neanche un posto tutto suo dove riposare e, perché no, piangere – “Il piacere di provare pietà per me stesso. Il piacere di piombare finalmente nel dolore dopo essere rimasto sospeso sopra la sua voragine.” –, Arthur ha la sua grande casa a due piani, solo apparentemente inviolabile, dove sembra un bimbo abbandonato: “Ho giurato che non sarei uscito mai più, perché non avevo nessuno da chiamare, e quel giorno non mi aveva chiamato nessuno, ed è stato per questo che ho capito di non avere più bisogno di uscire”.

Che ne sarà di Arthur e Kel (e non solo di loro)? Riusciranno a violare sé stessi, a chiedere aiuto? Il bello è che la storia comincia da qui, tutto questo lungo parlare è solo la cornice: se volete vedere il quadro dovete leggere il libro. Ne vale veramente la pena, anche di più.


Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.

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