di Filippo Bocci
Ci sono uomini che vivono e sono ricordati oltre sé stessi. Raffaele La Capria è stato uno degli scrittori più importanti del ‘900, e tanto altro. L’autore di Ferito a morte, romanzo imprescindibile del secolo scorso, – chi non ricorda il fascino inquieto eppure seducente della “spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro” del meraviglioso incipit? – comunicava un che di familiare, di intimo, potremmo dire che si lasciava guardare, trovare.
“Conta più chi ti conosce di chi conosci tu”. È una frase della poetessa Wislawa Szymborska che La Capria riporta nell’introduzione di Tu, un secolo, una silloge di lettere concepita dallo stesso scrittore di recente scomparso e pubblicata da Mondadori. Il libro, per chi vorrà regalarsi il recondito piacere di leggerlo, è tutto qui. Sembrerà poco, ma quella frase tiene legati la cordialità dei rapporti, – “caro Duddù”, lo apostrofano gli amici – gli attestati di stima, la cura della felicità, che certificano una vita appagante, un magistero assoluto che, senza sforzo, restituisce ad ognuno dei suoi lettori una storia personale, un’immagine di sé stesso. Quella frase è l’architrave della raccolta, costruita infatti molto più con le lettere ricevute che con quelle inviate dall’autore.
Parafrasando il Poeta, è “una corrispondenza di amorosi sensi”: “Queste lettere – dice La Capria – sono per me lo specchio in cui mi guardo e che mi rimanda lo sguardo dei miei lettori”. È una interazione potente, esclusiva, tra scrittore e lettore, un insondabile travaso di emozioni, una “confidenza”, un “rapporto particolare”.
Centrale è la predilezione per la parola scritta, fissata, che meglio consente di precisare il pensiero. La lettera infatti, scevra dalle preoccupazioni “dell’occhio del mondo”, è meno sorvegliata, più spontanea, più sincera. Una tenera ma lucida ingenuità, quasi infantile, fa dire a La Capria: “Non posso fare a meno di avvicinarmi alla cassetta della posta speranzoso di trovare una lettera. Non una lettera qualsiasi, ma una bella lettera, come quelle di una volta, scritta a mano”.
Si succedono così, in un informale pantheon, gli amici e gli incontri di una vita: Moravia, Bompiani, Pomilio, Mastronardi, Parise, Ortese, Sanvitale, Pontiggia, e tanti altri, la crema della nostra letteratura appena di ieri.
E poi, naturalmente, c’è Napoli e il suo amato mare, lo spazio scenico per eccellenza: “Quando arrivavi a casa com’era dolce e riposante il respiro del mare! […] Non poteva nascere che da lì l’idea della bella giornata”. E “Palazzo Donn’Anna, con le sue ombre spettrali e la sua luce folgorante era già una buona metafora della mia immagine mentale di Napoli”.
Sfogliando questa corrispondenza, a volte ordinaria ma mai banale, commuove l’attenzione per i dettagli che esaltano la bellezza dell’animo di La Capria. E tanto è il bisogno dello specchio dell’altro per arrivare a dire che lo scritto, in particolare le lettere degli amici, “appare come una specie di coccodrillo”, fa quasi da ponte con l’aldilà, restando come una memoria.
Ecco allora che il volume è arricchito con sapienza dalla voce degli amici più cari che ne piangono la morte e, fra tutte, si erge amara quella di Edoardo Albinati: “Ora che Raffaele La Capria non c’è più […] mi sento solo anche se in realtà non lo sono affatto, sì, solo, terribilmente solo, e meschino, inaridito”.
Tuffarsi nel mare della sua scrittura, “profilata nell’azzurro”, è ritrovare lui e noi.
Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.