Rukeli

Rukeli il pugile eroe: sfidò Hitler, oggi è fra i Giusti

Il 1° agosto del 1936 Adolf Hitler, scrutato dall’occhio ravvicinato di una telecamera guidata da Leni Riefenstahl, dichiarò ufficialmente aperti i Giochi della XI° Olimpiade. Davanti a lui centomila persone affollate sulle tribune dell’Olympiastadion di Berlino: e sotto di lui gli atleti che avevano dato vita alla sfilata inaugurale. Dopo l’annuncio del Fuhrer e l’accensione del braciere olimpico (Richard Strauss dirigeva un’orchestra di oltre cento strumenti) la giornata sarebbe proseguita fino a sera con esibizioni di vari gruppi che celebravano, ciascuno attraverso i crismi della propria arte, l’ideologia di una superiorità ariana che poggiava le radici in un passato arcaico; e che non poteva non trovare celebrazione nei corpi e nei gesti degli atleti olimpici. Il compito della Riefenstahl, attrice feticcio del cinema tedesco di taglio nazista, rivale acerrima di Marlene Dietrich, regista adorata dal Fuhrer e concupita senza successo da Goebbels, era questo: con gli innovativi e potenti mezzi tecnici che il ministro le aveva messo a disposizione avrebbe dovuto, nei quindici giorni che sarebbero seguiti, definire per sempre il paradigma dell’essere umano nazionalsocialista che avrebbe dovuto dominare il mondo.

Faceva freddo quel giorno a Berlino, all’Olympiastadion. Ma c’era chi quel freddo lo avvertiva non come una passeggera anomalia della calura estiva ma come uno stato di umiliazione definitiva, un’anticipazione di morte. Quindici giorni prima il Reichsfuhrer delle SS Heinrich Himmler, quando già atleti da tutto il mondo erano in viaggio verso la Germania, in spregio delle menzognere dichiarazioni ufficiali grazie alle quali Hitler aveva ottenuto sia i Giochi estivi di Berlino sia quelli invernali di Garmisch-Partenkirchen, e che garantivano come nel Reich non fosse in atto alcuna persecuzione di stampo razziale, aveva ordinato per decreto che tutti gli appartenenti alle etnie nomadi di Berlino e dintorni, i cosiddetti figli del vento, fossero trasferiti in massa al campo di concentramento di Marzhan. Tra di loro c’era anche un pugile, categoria medi-mediomassimi, che si chiamava Johann Trollmann ma che tutti conoscevano come Rukeli. Uno che due anni prima aveva avuto l’ardire di sfidare il regime nazista proprio sul terreno dell’estetica, quello che Leni Riefensthal avrebbe dovuto codificare in modo imperituro riprendendo le gare dei Giochi.

Trollmann-Rukeli è lo sportivo oggi celebrato a Roma nella Giornata dei Giusti: un evento fondato più di dieci anni fa dalla Fondazione Gariwo per ricordare il 6 marzo le donne e gli uomini che si sono opposti ai totalitarismi. Se Gino Bartali è stato insignito del ruolo di “Giusto d’Israele” per come s’impegnò a salvare cittadini ebrei trasportando documenti assai pericolosi in un anfratto nascosto ricavato nel fusto della sua bicicletta, Rukeli fece del suo corpo un messaggio vivente ed esplicito che colpì al cuore il regime nazista e accelerò in modo potente e spaventoso la sua discesa agli inferi che si concluse con la sua morte, il 9 febbraio del ’43 nel campo di Neuengamme.

Attraverso i grandi personaggi dello sport, si sa, la comunicazione di qualsivoglia messaggio diventa potentissima. Rukeli si rese protagonista di un atto di sfida così clamoroso da ascendere al ruolo di atto simbolico. Lui che era già stato estromesso proprio perché sinti dalla selezione che avrebbe rappresentato la Germania ai Giochi di Amsterdam del 1928, aveva conosciuto grande celebrità sul territorio nazionale, e aveva conquistato il titolo nazionale dei pesi mediomassimi nel ’33. Rukeli non era un pugile come gli altri. La sua era una danza. Si muoveva sul ring conquistando spazio, diventava, grazie ad un continuo e destabilizzante movimento degli arti inferiori, imprendibile per l’avversario e al contempo si poneva nella condizione migliore per colpire con chirurgica precisione. Parlava con gli spettatori seduti nelle prime file. Almeno fino a quando la Germania nazista decise che quella boxe danzata era un abominio, una versione sportiva dell’arte degenerata, che sapeva di incertezza genetica e sessuale: un esempio intollerabile per i giovani del Reich. E inventò una delle più clamorose e orrende mistificazioni regolamentari della storia dello sport: il Deutscher Faustkampf. Ovvero una boxe fatto di brutale potenza senza strategia. Nessuna danza, nessuna finta, nessuna ricerca di Lebensraum, lo spazio vitale della cui conquista Hitler fece l’obiettivo della sua esistenza criminale. Solo violenza pura, frontale, assoluta. Il più violento (non il più forte) vince, l’altro soccombe. Come impedire a Nereo Rocco di applicare lo schema difesa-contropiede. Come imporre a McEnroe di non giocare volèe limitandosi a colpi da fondo campo. Come chiedere a Sonia Henie, la celebratissima pattinatrice tedesca di quegli anni (adorata da Hitler e per questo nessuno all’interno del Ministero dello sport avrebbe mai potuto decidere di modificare le regole di quella disciplina) di abolire dai propri programmi volteggi troppo ricamati per produrre solo salti e ancora salti, sempre più alti e complessi. Rukeli decise, quando già era oggetto di persecuzioni che gli impedivano di guadagnarsi da vivere combattendo, di mettere in scena la più clamorosa delle contestazioni; scelta che poi avrebbe pagato con la vita.

Privato truffaldinamente del titolo nazionale dei mediomassimi, gli fu concesso di ripetere il match già vinto contro Gustav Eder, poulain del partito, ma con le regole del Deutscher Faustkampf, la nuova boxe tedesca.

Rukeli salì sul ring della Bockbraurei di Berlino il 21 luglio del ‘34. Ma quando gli spettatori tra cui abbondavano divise delle SS, lo videro trattennero il fiato. Lui, scuro di pelle, con gli occhi scuri e profondi, per nulla ariano così come per nulla nazista era la sua boxe, si presentò con i capelli tinti di biondo e con la pelle totalmente cosparsa di talco bianco. Una sorta di fantasma che era contestazione vivente dell’estetica nazista. Volete un ariano? Eccolo. Volete un pugile che non danzi sul ring? Rukeli completò il suo atto di massimo coraggio negando la boxe tedesca che a sua volta negava se’ stessa: non danzò ma nemmeno accettò il combattimento vis a vis. Si difese e quando cessò di difendersi mentre l’avversario lo insultava urlando accettò il colpo del ko. Diventando, con la sua sconfitta, un insopprimibile esempio di schernimento delle ideologie totalitarie, anche e soprattutto quando negano, nello sport, il genio.

La vita di Rukeli è stata oggetto di narrazioni anche teatrali: a Roma è andato in scena uno spettacolo del Gruppo della Creta diretto da Alessandro di Murro. Ma forse nessuno ha mai notato che la sua boxe e il suo coraggio altro non sono stati che dei prodromi di quanto, meno di vent’anni dopo, un altro pugile avrebbe creato e che avrebbe cambiato per sempre il mondo dello sport. Rukeli in fondo “danzava come una farfalla e pungeva come un’ape”, attaccava il potere e ne denunciava la follia come un ragazzone logorroico di Louisville, Kentucky, che avrebbe vinto l’oro alle Olimpiadi di Roma e che sarebbe diventato ispirazione eterna per quegli sportivi che non disdegnano di coinvolgersi nel mondo in cui vivono: si chiamava Cassius Clay ma avrebbe cambiato il suo nome in Muhammad Alì.


Piero Valesio è nato a Torino 61 anni fa. Giornalista dal 1985 ha seguito Olimpiadi e grandi eventi sportivi per il quotidiano Tuttosport. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e curato la comunicazione degli Internazionali di tennis di Roma. Ha firmato rubriche per Sport Mediaset e scritto per Il Messaggero. Attualmente scrive del rapporto fra sport, serialità e tecnologia sul sito specializzato Sport In Media, di attualità tennistica su Ok tennis, di sport fra società e cultura sul quotidiano Domani.

guarda anche