Nei giorni scorsi, in vista del 25 aprile, avevo scritto che forse è bene “mettersi l’anima in pace e smettere di pretendere che la destra oggi al potere riconosca che l’antifascismo e la Resistenza sono all’origine della Costituzione italiana”.
Ed infatti la destra italiana non lo ha fatto, come dimostra la lettera al Corriere della Sera della Presidente del Consiglio in occasione del 25 aprile. Certo non vi si trovano le espressioni incontrollate del senatore La Russa, e tuttavia, benché limata attentamente, quella lettera non chiude affatto la questione sul significato e la portata dell’antifascismo e della Resistenza, tanto che viene da chiedersi perché sia stata scritta.
Circa il 25 aprile, l’on. Meloni si limita a dire che esso “segna evidentemente uno spartiacque per l’Italia: la fine della seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del ventennio fascista, delle persecuzioni antiebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale.” Nel giorno in cui il Presidente della Repubblica afferma che le parole di Duccio Galimberti sulla lotta al regime fascista e alla tirannia mussoliniana fanno “comprendere appieno valore e significato della Resistenza”, la distanza non potrebbe risultare più netta.
Nel seguito della sua lettera, Giorgia Meloni scrive che “da molti anni i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo.” Non avere nostalgia del fascismo è ben diverso e ben lontano dal condannarlo. Come ha notato ieri Stefano Cappellini su Repubblica, “non rinnegare, non restaurare” è forse la più celebre delle frasi di Giorgio Almirante. C’è qui una continuità evidente.
Ma c’è di più. Nella sua lettera, la Presidente del Consiglio fa riferimento all’amnistia di Togliatti e alle parole di Luciano Violante sui “ragazzi” di Salò. Dunque, la strada della pacificazione nazionale che vorrebbe percorrere la destra italiana consisterebbe nel riconoscere che, in quegli anni terribili, entrambe le parti che combatterono una sanguinosa guerra civile ebbero le loro ragioni. Lo ha detto in televisione senza mezzi termini uno storico di destra che, non a caso, si è richiamato anche lui a Luciano Violante. Ma per l’Italia non fu e non può essere così. Se la Costituzione si fonda sulla Resistenza, essa non può fondarsi anche su coloro che combatterono contro la Resistenza, alleati con i nazisti.
Si può e si deve avere uguale pietà per i caduti di ambo le parti, come scrisse Leo Valiani nella dedica di Tutte le strade conducono a Roma. Ma questo non vuol dire che avessero ragione sia gli uni che gli altri. Possiamo comprendere che gli eredi del fascismo del ventennio e della Repubblica di Salò cerchino questa legittimazione postuma della loro storia. Ma la Repubblica nata dall’antifascismo e dalla Resistenza non può accettare questa compromissione. Solo riconoscendo questo punto essenziale si può dare un fondamento non equivoco al “patriottismo costituzionale” da tanti invocato.
Può darsi che, nonostante le parole circospette ed evasive, l’intervento della premier nel giorno della Liberazione rappresenti comunque un momento del cammino della destra italiana verso una trasformazione in un partito conservatore senza riferimenti al passato: così, per esempio, ha voluto leggerlo Giuliano Ferrara. Ma l’occasione del primo 25 aprile da Presidente del Consiglio avrebbe consentito a Giorgia Meloni di dire parole chiare, nette e definitive come quelle che seppe dire a suo tempo Gianfranco Fini. Non lo ha fatto. Meloni ha anche scritto che una maggioranza degli italiani “a giudicare dai risultati elettorali” non richiede questa trasformazione del suo partito. Questa affermazione fa pensare che, a chi guida oggi il governo, questa trasformazione non appaia necessaria.