Siamo alle soglie del nostro nuovo millennio e Zamir, il protagonista dell’omonimo romanzo dello scrittore turco Hakan Günday edito da Marcos y Marcos, ha circa quarant’anni. Il libro corre sul doppio binario fra il presente dell’ultima settimana prima dell’anno 2000 e il racconto dell’infanzia e dell’adolescenza di Zamir. Nato al confine tra Turchia e Siria, il bimbo viene abbandonato dalla madre in un campo profughi dove è ferito da un’esplosione. Salvato da un chirurgo che è una delle tante figure significative della storia, Zamir dovrà sottoporsi ad una serie di operazioni per dotarsi di una faccia artificiale, priva però di emozioni, impossibilitata a ridere come a piangere.
Da piccolo diventa la figura simbolo di “All for All”, un’organizzazione umanitaria internazionale che raccoglie donazioni nel mondo a favore dei bambini vittime di guerre e povertà, ma più tardi l’abbandona per entrare nella “Fondazione per la Prima pace mondiale”, nata per evitare omicidi e conflitti di qualunque genere e con qualunque mezzo, spesso dovendo scegliere il male minore. Scopriremo che per aspetti non troppo dissimili “All for All” e la “Fondazione per la Prima pace”, sono due risvolti della stessa medaglia, di un mondo costruito sull’inganno, sul dolore.
Da qui il dramma di questo personaggio simbolo. Già lo stare al mondo gli provoca sensi di colpa: è la ferita del proprio dolore e la vergogna di esistere di fronte a quello degli altri. Viviamo in una società dove più si è sensibili ed empatici, maggiore è lo sconforto che nasce dal male e dall’ingiustizia. Zamir poi è profondamente dilaniato, perché il suo strazio non ha sfogo fisico, non può essere esternato.
Seguiremo dunque il nostro eroe nelle vesti di “conciliatore” alle prese con politici, guerriglieri, affaristi, dittatori, in situazioni a volte surreali o grottesche. Lo accompagna, lo protegge potremmo dire, spia della sua umanità segreta, la custodia di un violoncello, strumento che egli immagina di imparare a suonare: “Trascorrevo ogni giorno della mia vita sforzandomi di sfuggire alla tentazione del suicidio. Era per questo che avevo comprato il violoncello. Sebbene non sapessi suonare e non avessi mai tentato di imparare, credevo che quello strumento mi avrebbe salvato la vita […] Il pensiero del momento in cui quel violoncello avrebbe suonato per la prima volta era tutto ciò che mi teneva in vita”. Il linguaggio della musica è dunque un’ancora di salvezza, di chi è alla ricerca ostinata dell’umanità perduta.
In questo sforzo, “vedere” è la parola chiave del libro. Capiremo che solo incontrando sé stesso nell’altro è possibile trovare il fondamento, se non dell’amore, quantomeno del rispetto reciproco. In fondo si odia e si uccide ciò che non si conosce, ciò che non si vede o che si rifiuta di vedere. Le guerre, gli omicidi sono causati da tutto ciò che si frappone, pregiudizi, credenze, religioni. Finirebbero, se gli uomini abbattessero quei muri della mente e potessero vedersi e riconoscersi, nel miracolo di un’illusione ottica.
Se un appunto possiamo fare al romanzo – ma sarà poi veramente un difetto? – è che dietro Zamir spunta talvolta troppo chiara la voce di Günday, vicina quasi a quella del reporter, del giornalista d’inchiesta, che non perde occasione per esprimere giudizi per mezzo del suo protagonista.
Ma il narratore è bravissimo nello sbattere in faccia al lettore il dolore, l’ingiustizia, senza sotterfugi, senza giri di parole. Non si serve della scrittura per colorare o addolcire. È asciutto, diretto, spietato. Nel descrivere i comportamenti univoci delle masse ostenta un’ironia feroce, e inesorabile è la sua condanna del consumismo e del superfluo nonsense: “Dopotutto da tempo l’uomo si lasciava guidare, e dominare, dagli oggetti. Ormai lavorava solo per possedere qualcosa che fosse nuovo. Quindi pensai a quanto amore suscita tutto ciò che è nuovo. Come i bambini, in effetti, che sono esseri umani nuovi di zecca. Sono l’ultimo modello, un pezzo di carne fresca, immacolata”.
Una scrittura potentissima, una voce di denuncia necessaria che arriva forte, seppur dietro il velo della narrazione fantastica, e che fa di Zamir un personaggio difficile da dimenticare.
Filippo Bocci, laureato in Lettere, scrive di letteratura, cinema, teatro. Segue gli sviluppi e le tendenze della letteratura italiana e internazionale, recensendo, fra l’altro, le opere di nuovi talenti della poesia e della narrativa contemporanee. Numerosi suoi articoli sono pubblicati sul magazine on-line B-hop. Nel 2019 ha dato alle stampe «Padre Crippa un sacerdote militante. Un prete “sindacalista” al fianco delle colf», edito dalla Fondazione intitolata al religioso dehoniano.