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Ancora una volta. Michigan, la strage nel campus universitario

di Francesco Olivieri

WASHINGTON – Ancora una volta i media americani sono pieni di riferimenti al più recente episodio di violenza insensata, in un paese in cui questi episodi sono comuni al punto di confondersi con gli inevitabili incidenti della vita: la “forza maggiore” contro la quale si rinuncia a trovare rimedio e non resta che partecipare, brevemente, al dolore dei sopravvissuti.

Questa volta il teatro dell’esplosione di follia è stata la prestigiosa Michigan State University, uno dei centri di ricerca più famosi al mondo. Un uomo di 43 anni ha aperto il fuoco nel campus e il bilancio della strage è stato di tre morti e cinque feriti, di cui alcuni gravi. Il killer, che dopo aver sparato è fuggito a piedi, è stato poi trovato morto, suicida.

Un numero sorprendente di queste stragi avviene in scuole e università; le vittime possono essere bambini, adolescenti, adulti che hanno solo questo in comune: essere nella fase della vita in cui si compie la transizione dalla famiglia alla società, dalle elementari alla rifinitura culturale nelle università – la linea di frontiera che forma e filtra gli adulti della nazione. Sono episodi drammatici anche per la contrapposizione tra la giovanile innocenza che si attribuisce all’età delle vittime e la incomprensibile rabbia autodistruttiva degli assassini, i quali alla fine vengono spesso abbattuti dalla polizia come bestie selvatiche, beninteso qualora non si siano suicidati dopo l’orgia di sangue che hanno provocato.

Quest’ultimo è stato il 67mo episodio di violenza indiscriminata dall’inizio dell’anno, nemmeno due mesi. È anche accaduto, per coincidenza, nell’anniversario di un analogo precedente tra i più dolorosi; quasi una macabra celebrazione, che sarà anche l’occasione per l’ennesima iterazione della polemica nazionale sul troppo facile possesso delle armi da fuoco – e non c’è motivo per ritenere che possa essere l’ultima.

In realtà il Michigan è uno stato modello della vita americana: prospero, civile, poco toccato dalle ondate di immigrazione tipiche degli stati frontalieri, industriale e rurale insieme, sede di un prestigioso gruppo di centri universitari di insegnamento e di ricerca secondo solo alla Silicon Valley, che sforna qualcosa come 30.000 laureati all’anno e che si vanta di generare una invenzione al giorno.

Al tempo stesso, la città principale, Detroit, è anche un monumento al distopico presente post-industriale, con i ruderi degli immensi stabilimenti dove per un secolo si sono prodotte quasi tutte le automobili dell’America, e durante la guerra mondiale anche buona parte dell’armamento degli eserciti alleati.

È allora una parabola dell’America di questo secolo? Il costante cambiamento è un fatto della vita, e l’America non fa eccezione. La certezza della stabilità del mondo circostante non è qui più solida che altrove, ma forse il divario tra la realtà tramandata e quella vissuta è qui anche più ampio. Inoltre, il punto di contatto tra la vita dei minori, protetta nelle famiglie, e quella esposta a tutti gli elementi esterni, condotta nei successivi decenni nella società, si trova proprio nei luoghi di formazione, che quindi sono anche un punto di frizione. È il momento in cui si scopre che le promesse della società sono condizionate a meticolosa preparazione, duro lavoro e capacità di misurarsi con gli altri.

È quello probabilmente un momento cruciale per alcuni, vittime dello scoraggiamento dinanzi alle attese e allo sforzo necessario per reclamare il posto e la dignità del cittadino nella società. Talvolta, forse, il disorientamento chiude la mente ad ogni scelta e conduce alla conclusione di dover uscire dal labirinto con la propria morte o con un gesto tragico, anziché perseguire la chimera di un diploma e poi la quotidiana competizione del lavoro e della famiglia.

Questa contrapposizione esiste dovunque, ma quando è esasperata e per di più si imbatte nella facile disponibilità di armi mortali aumenta il rischio di questo ormai costante eccidio. Anche se c’è del vero quando si dice che non è tutta colpa delle armi, ben venga dunque una regolamentazione più prudente e razionale. Ma sarebbe illusorio pensare che un sistema più rigido ed efficace possa bastare a risolvere il problema una volta per tutte, se non si rifletterà anche sulle cause meno appariscenti di questa follia.

Una società competitiva è di sicuro uno degli elementi principali nella storia del successo americano. Questa società fa emergere leader ed inventori, ma evidentemente trascura di offrire una alternativa dignitosa a chi invece giunge alla conclusione – magari anche errata – di non avere la stoffa o l’opportunità per aspirare alle vette e avrebbe bisogno di poter mirare ad una dignità differente, a portata della sua mano.

Non è sempre solo questione di soldi o di posizione sociale e nemmeno di casta; è questione di posto nella società. Esiste un neologismo, oggi, negli Stati Uniti che designa una particolare categoria di persone che sono chiamate incel: sta per involuntary celibate, cioè chi non trova un’anima gentile nel sesso opposto, o magari anche nel proprio, con cui far sbocciare un amore: anche questo è stato un motivo perché dei folli, abbandonata ogni speranza, abbiano trucidato ragazze sconosciute quali ignare rappresentanti di un sesso crudele, per poi uccidersi – aggiungendosi alla turba degli altri assassini per disperazione.

La stragrande maggioranza, per fortuna, nonostante lo stress raggiunge spontaneamente un equilibrio. Ma per altri la glorificazione del successo dei pochi porta solo all’umiliazione dei molti. Esiste una differenza tra medio e mediocre e nessuno dovrebbe essere spinto alla conclusione, in un momento di sconforto, di essere respinto con perfidia dalla società di cui è parte. E invece proprio questo potrebbe essere il sentimento di quelli che giungono ad una conclusione così tragica come quella che vediamo in questi ricorrenti episodi.

Il motto “civis Romanus sum” esprimeva una idea diffusa di dignità che si applicava a tutti ed ognuno, ed ha funzionato bene finché è durata l’Urbe. In una democrazia, offrire a ciascuno la dignità dovrebbe essere ancora più facile. Dovremmo trovare il consenso di tutti riguardo la dignità naturale di chi vive.

È allora assolutamente necessaria una regolamentazione più rigorosa ed efficiente, e soprattutto più prudente, del possesso delle armi da fuoco, ma sarà inutile senza una seria attenzione per ampliare l’ambito reale della società civile e vegliare perché che offra a tutti, e non solo ai fortunati, di godere dell’ampia e profonda dignità di cittadini.


Francesco Olivieri è stato un diplomatico italiano che ha lavorato negli Stati Uniti, in Venezuela, a Bruxelles, in Cina, in Italia per il Ministero del Commercio Estero. È stato ambasciatore in Cecoslovacchia (poi ristretta a Cechia) e in Croazia, quindi Consigliere di politica estera del Presidente del Consiglio e per tre anni Sherpa del G8, infine ambasciatore all’OCSE, alla Agenzia Spaziale Europea e alla Agenzia Internazionale per l’Energia. Lasciata la Farnesina, ha lavorato con l’Enel in Italia e poi nuovamente negli USA, dove ha aperto la sede di Washington dell’azienda italiana. Ha scritto le “Lettere da Washington” per Il Commento Politico con il nom de plume Franklin, mosso dall’istintiva simpatia per un grand’uomo che aveva sense of humor, nella sua vita era stato un diplomatico di successo e per di più aveva – come Franklin – l’abitudine di inventare congegni pratici, nel suo rifugio in Pennsylvania.

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