(Bruxelles) – Non saprei dire quanto il resto del mondo abbia prestato la dovuta attenzione alle elezioni europee. Di per sé, esse costituiscono un esercizio glorioso, per numero di elettori e per le conseguenze del voto, ma anche collante di questi ventisette paesi “sovrani” eppure parte di una medesima società, interdipendenti e volontariamente governati da comuni istituzioni: non facile da capire spesso per gli stessi cittadini europei, e ancora di più fuori dall’UE.
Ma non siamo soli, e a nostra volta rischiamo di non comprendere l’importanza e lo sforzo titanico delle elezioni indiane, che con quelle europee hanno condiviso il calendario e alcune delle sfide di fondo.
Elezioni alle quali hanno partecipato 642 milioni di indiani, su un totale di 969 milioni di potenziali elettori – circa il 65,79% degli aventi diritto. In virtù del complicato sistema elettorale, la votazione si è svolta in ben sette fasi distribuite in cinque settimane, dal 26 aprile al 1˚ giugno 2024 e ha visto al lavoro, tra scrutatori e altri addetti alle elezioni, ben 15 milioni di funzionari, molti dei quali hanno svolto il loro compito viaggiando in più parti del paese. Un sistema elefantiaco e, come tutto in India, paradossale, perché l’approdo finale di un processo così macchinoso si è risolto con il voto elettronico e il conteggio simultaneo il 4 giugno.
La campagna è stata intensa, anche più che in Europa. Il partito di Narendra Modi, Bharatiya Janata Party (BJP), nel suo manifesto elettorale prometteva di rendere l’India un paese sviluppato entro il 2047, quando celebrerà i suoi 100 anni dall’indipendenza. E da anni lo stile di Modi è quello di un presidente in campagna elettorale permanente. Un attivismo che non ha mai intimorito l’opposizione, che ha insistito sulla crescita dell’India che va di pari passo con la crescita delle diseguaglianze sociali e sulle opportunità non equamente distribuite, e che ha anche denunciato un uso strumentale della giustizia, per via dell’arresto per corruzione di alcuni suoi esponenti.
L’esito delle elezioni indiane ricorda quello europeo, dove la maggioranza uscente è stata confermata anche se indebolita: entrambi gli elettorati hanno scelto per lo status quo, un “avanti con moderazione”. Così Narendra Modi resta Primo Ministro, per la terza volta, e il suo BJP continua ad essere il primo partito in India. Tuttavia, il numero di seggi del BJP nella Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento indiano, è inferiore agli obiettivi fissati e inferiore anche a quelli del 2014 e del 2019. Ma, cosa ancora più importante, con 240 seggi il BJP dipende dai suoi alleati per raggiungere la maggioranza di 272 seggi necessaria per governare. L’opposizione, riunita nell’Indian National Developmental Inclusive Alliance (INDIA), si è assicurata un totale di 234 seggi, con il Partito del Congresso che ha ottenuto 99 seggi (quasi il doppio del 2019). Pertanto, la politica indiana sembra essere entrata in una nuova era, in cui la stabilità del governo dipenderà dai negoziati e dai compromessi. Inoltre, il blocco dell’opposizione si è rafforzato e, con esso, la vitalità della democrazia indiana. Una democrazia già antica e da sempre complicata e ricca di “casi unici” – solo in India, per esempio, un partito che si richiama esplicitamente al marxismo-leninismo è diventato forza di governo grazie al suffragio universale.
Occupata come spesso accade, a contemplare il suo ombelico, l’Europa non ha osservato più di tanto queste elezioni, che pure hanno confermato una propria via a una sorta di “India first”. Consapevoli di essere lo Stato più popoloso al mondo e in costante crescita, maggioranza e opposizione condividono la visione di un paese che debba e sappia camminare sulle proprie gambe, senza pagare tributi di alcun genere ad altri. L’India pare aver raggiunto una sua “Autonomia Strategica”, grazie alla quale la stessa relazione con l’Unione europea, per non parlare del Regno Unito, si è rapidamente trasformata da paese beneficiario di investimenti e cooperazione allo sviluppo, a potenza tecnologica, industriale e anche finanziaria. È significativo che da anni Bruxelles cerchi di accordarsi con Delhi su un Accordo di Libero Scambio – sul modello di quelli già in vigore col Giappone, la Corea del Sud o Singapore – in modo da sviluppare sinergie e facilitare scambi e varie forme di cooperazione, eppure un’India sempre più assertiva e “sovrana” continua a nicchiare: i negoziati cominciarono nel 2007, furono poi sospesi nel 2013, rilanciati nel 2021 con l’idea di concluderli entro le elezioni europee e indiane di quest’anno – ma siamo in alto mare, anche perché i rapporti di forza tra le parti cambiano costantemente, o almeno la percezione che entrambe le parti hanno della propria forza negoziale. Il risultato del voto non metterà in discussione tale approccio di fondo nelle relazioni con l’Europa, anche perché nel frattempo l’India si guarda sempre più intorno e non si fida dei nuovi schieramenti che emergono: lungi, a differenza di Giappone o Corea, dall’unirsi alla condanna della Russia, l’antico rapporto con Mosca ha retto anche alla prova dell’Ucraina, ma senza alcuna forma di sostegno a Putin. Né l’India di Modi si sente davvero a casa tra i BRICS, una compagine dove è riluttante ad accettare un ruolo paritario e non protagonista.
Perché alla fine, e anche in questo le elezioni e la dinamica maggioranza/opposizione non hanno cambiato il corso del sentimento indiano, la vera ossessione resta la competizione con la Cina – per taglia, ambizioni economiche, leadership in Asia e domani forse nel mondo, e anche per sistema di valori e concezione della società: un problema.
Anche per l’Europa la Cina è sempre meno l’interlocutore (e l’opportunità) che è stata fino a poco fa. Ecco: sarà forse per una via asiatica e non bilaterale, che Europa e India, le due più grandi democrazie che hanno celebrato le rispettive liturgie elettorali negli stessi giorni, si ritroveranno a braccetto.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.