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Il paradosso americano: realpolitik o diritti umani?

di Francesco Olivieri

Alla fine dello scorso novembre gli studenti cinesi sono scesi in strada al grido di “Democrazia, stato di diritto, libertà di espressione!”. La rivolta è dilagata provocando l’intervento violento della polizia, molti giovani sono stati arrestati ma i disordini sono proseguiti per settimane. Le immagini degli scontri, insieme a quelle dei fogli A4 bianchi agitati dai ragazzi come denuncia della censura e della repressione delle libertà in Cina, hanno scosso il mondo democratico già profondamente turbato dalla drammatica sollevazione delle donne e dei giovani in Iran.

Ma quanta strada passa dal turbamento alla condanna, dalle dichiarazioni  di denuncia dei regimi autoritari alla correzione con scopi sanzionatori dei legami strategici, commerciali, finanziari, che le democrazie occidentali intraprendono con i governi liberticidi? Insomma, realpolitik o difesa dei diritti umani? L’America è da sempre alle prese con questo dilemma, forse più e più dolorosamente delle altre potenze occidentali. Perché ciò avvenga, lo dice l’eccezionalità di questo Paese, la sua nascita e la sua storia passata e presente, il paradosso di una potenza pervicacemente indirizzata a perseguire i propri interessi e contemporaneamente orgogliosamente determinata ad assumere il ruolo di guardiano dei valori della democrazia.

Questo paese non nasce da una tensione tra diverse etnie nello stesso Stato, che porta una di esse a svincolarsi da quella dominante per rendersi indipendente (come avrebbe potuto essere il caso della Scozia, se vi fosse riuscita). L’America è nata piuttosto da una frattura della medesima nazione, che non senza una dose di riluttanza decide di separarsi non per ragioni di razza, di lingua, o di religione, ma per affermare per sé una diversa idea politica, ispirata, nel caso, dalle nuove teorie degli illuministi sulla democrazia. Su come, e con quanta equità, questa scelta sia stata messa in pratica nei due secoli successivi resta tutt’ora un fertile campo di studio e di discussione tra gli americani stessi – per non parlare degli altri; ma l’idea che la nazione sia il prodotto di questa – si è tentati di dire – “immacolata concezione” resta un pilastro dell’identità americana, ed ha avuto effetti profondi sulla formazione dell’immagine della nazione agli occhi degli americani di oggi. L’idea deve certo aver avuto dei meriti, se nel corso del tempo ha spinto qualcosa come 90 milioni di persone ad affrontare gli oceani per venire a diventare americani.

Il primo a identificare questo tratto caratteristico è stato Tocqueville, proprio agli inizi, nel suo classico “Democrazia in America”, per sottolineare in senso positivo il fenomeno politico nuovo che si stava creando oltreoceano, in cui trovavano posto concetti nobili ed ispirati che altrove la società del tempo non era capace di porre in atto;  la deriva verso una valutazione critica di questo stesso concetto si trova solo in tempi più recenti, quando il ruolo degli Stati Uniti nel mondo è cambiato, soprattutto negli anni in cui la ritirata dell’Europa dal suo lungo imperialismo, ormai insostenibile, ha lasciato gli Stati Uniti nella posizione di erede.

La missione della difesa globale della democrazia in un mondo apparentemente bipolare ha fatto seguito; così la connotazione negativa del concetto di “eccezionalismo americano” risale proprio soprattutto agli anni del Vietnam, e poi a quelli successivi, e non ha credenza tra gli americani stessi. Questo divario fa sì che se anche tale legame con il concetto di democrazia guida ancor oggi la nazione nel suo insieme, non si riflette favorevolmente sull’immagine che l’America proietta di sé nel mondo.

Si possono avere giudizi variegati sull’operato dei 46 presidenti questo paese, ma è ineluttabile che la democrazia americana, come ogni democrazia, sia il risultato di un difficile connubio di ideali e volontà popolare: i primi non possono prevalere nel guidare il comportamento della nazione se il sostegno del popolo non fornisce ad ogni momento il consenso necessario. Non basta la convinzione di un gruppo ristretto – per quanto possa essere composto di saggi – a imporre il comportamento giusto, quello conforme ai principi dichiarati e sottoscritti, ma occorre che il lungo treno della nazione sia effettivamente collegato alla locomotiva che lo vuole trascinare; e questo – soprattutto quando si guarda ai rapporti con l’esterno – non può essere mai garantito.

Non si deve dimenticare che mentre in tutte le nazioni dorme un impulso isolazionista, questo negli Stati Uniti dorme pochissimo: non è nascosto o clandestino, ma al contrario vocale e ben visibile, e si trova alle radici dell’eccezionalismo americano. Ripetutamente, gli Stati Uniti si sono trovati nella situazione di aver enunciato una diplomazia coerente con una visione democratica del mondo, per poi rinnegarla o disapplicarla nella pratica, seguendo l’impulso proveniente dalle forze interne alla nazione, contrarie a quanto le amministrazioni “illuminate” si proponevano.

Così in un secolo c’è stato Wilson, e c’è stata la Società delle Nazioni, di cui l’America scelse di non far parte. Wilson guadagnò un Nobel, ma l’assenza della maggiore democrazia mondiale consacrò una impresa di per sé ambiziosa ad un fallimento assicurato. C’è stato poi Franklin D. Roosevelt, e sono nate le Nazioni Unite -stavolta con gli USA al centro – ma è mancato nel dopoguerra il contorno di accordi applicativi settoriali necessari per assicurarne l’efficacia e l’estensione, e soprattutto la crescita di una economia globale in cui le aspirazioni legittime dei popoli alla prosperità potessero trovare libero campo. Il sistema post-bellico della seconda metà del secolo scorso, che pure può vantare successi, non ha appagato tutte le speranze. In parte ciò si deve al fatto che fin dall’inizio il governo americano, guadagnata la leadership mondiale – attorniato da paesi vinti e distrutti e paesi vittoriosi ma diroccati anch’essi – non ha potuto mantenere l’impulso verso un “corpus” di accordi che andassero in quella direzione. Un esempio è stato il fallimento nel dopoguerra dell’accordo sul libero commercio, che doveva cementare un mondo di opportunità sostenuto da un sistema pacifico di aggiudicazione delle controversie. La creazione del WTO si è poi raggiunta solo nel 1995, con tortuose difficoltà -quarant’anni dopo la fine della guerra mondiale – dopo la lunga serie defatigante dei negoziati graduali sotto l’egida del GATT (definito ironicamente dai suoi cultori come il “General Agreement to Talk and Talk”, l’ “intesa generale per parlare e parlare”).

Ancor oggi la realtà quotidiana non manca mai di ricordare ai presidenti americani che le prospettive di accordo internazionale non dipendono dalle proiezioni degli esperti di Harvard, ma dal voto dei farmers del Nebraska; e i partner dell’America lo sanno altrettanto bene. Di recente abbiamo visto in televisione il Presidente ucraino Zelensky a Washington. Nessuno ha pensato a una vacanza, e pochi avranno creduto ad una operazione di politica interna rivolta ad aumentare il suo prestigio in patria, come pure sogliono fare i politici europei.  Agli americani non sfugge che Zelensky (magari con un pochino di incoraggiamento da una certa casa di un certo colore sulla Pennsylvania Avenue) ha fatto la mossa giusta: il presidente americano può essere al volante, ma il motore è negli stati, e quindi nel Congresso che li rappresenta. È a questo che non si può dimenticare di rivolgersi: anche se (quasi) nessuno qui mette in dubbio che il posto dell’America sia al fianco dell’Ucraina attaccata dalla Russia di Putin, non si può continuare a spendere i soldi degli americani senza il loro consenso, e nemmeno Biden e il suo governo possono assicurarlo.

Se questa è l’eredità storica degli USA, e questi sono i suoi limiti, occorre anche valutarne certe conseguenze, in America e fuori. Accettiamo il richiamo all’idea di democrazia; ma disponiamoci anche ad essere coscienti dei limiti che una democrazia impone a chi governa, sapendo che perfino la maggioranza né ha sempre ragione, né vince sempre.

Ma è certamente più difficile essere comprensivi, quando l’America si sottrae alla legge comune delle nazioni invocando l’eccezionalità dell’intera nazione, che proteggerebbe il paese dallo scrutinio altrui.

L’eccezionalità non è mai stata intesa come un super-potere conferito alla nazione americana, ma è piuttosto il riconoscimento del grande passo compiuto con la creazione di una democrazia praticabile nei nostri tempi, con le glorie e le magagne che accompagnano inevitabilmente ogni impresa umana. È un giudizio storico, non una assoluzione.

Volersi sottrarre in blocco al sindacato altrui, invocando una diversa, assoluta, dottrina della eccezionalità (che negli USA ha valore di un atto di fede) porrebbe l’intera popolazione al di sopra del dover rispondere al mondo delle loro azioni, in un momento storico in cui poco di quello che si fa o si decide a Washington resta nel territorio americano. Guidare una nazione, quando su questa incombe l’aspirazione e la capacità di guidare il mondo attraverso l’esempio anziché con la forza, obbliga a perseguire una coerenza che non è sempre evidente, ma che resta indispensabile.


Francesco Olivieri è stato un diplomatico italiano che ha lavorato negli Stati Uniti, in Venezuela, a Bruxelles, in Cina, in Italia per il Ministero del Commercio Estero. È stato ambasciatore in Cecoslovacchia (poi ristretta a Cechia) e in Croazia, quindi Consigliere di politica estera del Presidente del Consiglio e per tre anni Sherpa del G8, infine ambasciatore all’OCSE, alla Agenzia Spaziale Europea e alla Agenzia Internazionale per l’Energia. Lasciata la Farnesina, ha lavorato con l’Enel in Italia e poi nuovamente negli USA, dove ha aperto la sede di Washington dell’azienda italiana. Ha scritto le “Lettere da Washington” per Il Commento Politico con il nom de plume Franklin, mosso dall’istintiva simpatia per un grand’uomo che aveva sense of humor, nella sua vita era stato un diplomatico di successo e per di più aveva – come Franklin – l’abitudine di inventare congegni pratici, nel suo rifugio in Pennsylvania.

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