di Giovanni Caracciolo
Il superamento delle diseguaglianze e la tutela della libertà, quei capisaldi della democrazia invocati da Toqueville più di due secoli fa, conoscono, nel terzo millennio, nuove, drammatiche insidie ad opera di regimi illiberali, di autocrazie violente e guerrafondaie, di tentazioni imperialistiche o teocratiche che sfidano nel mondo intero il primato della ragione, gli equilibri della solidarietà e persino la luce e la guida della verità.
Non sorprende quindi che la sciagurata avventura innescata da Putin dia la stura, in assenza di qualunque giustificazione ideale o ideologica, a perverse suggestioni di convergenza con potenze quali la Cina o l’Iran e che sia precisamente la cifra del totalitarismo e della spietata vocazione alla conculcazione dei diritti a costituirne il collante, in chiave di prepotente oltraggio all’Occidente, mentre più prudenti e calibrate valutazioni originano da regimi meno insensibili e più adusi alle istanze della democrazia, quali l’India.
D’altronde, nel disorientamento generale di quest’era nuova, persino alcune costanti “classiche” nelle relazioni internazionali, quali il contemperamento del credo ideologico e politico con stringenti interessi materiali, insito nella “realpolitik”, subiscono l’onda d’urto dell’interdipendenza connaturata con la globalizzazione (o quantomeno con il suo avvento repentino e non sufficientemente regolato e controllato): mai come oggi, e forse anche per qualche svogliatezza passata nell’aver consentito a beneficio di altri il diradamento produttivo o, peggio, la desertificazione in alcuni settori vitali (dai micro-chips ai prodotti farmaceutici) il nostro emisfero conosce una situazione di asservimento e di costrizione tale da aver rinfocolato ovunque le istanze nazional-sovraniste e da lasciare poco spazio di manovra allorché la nostra voce (soprattutto quella dell’Europa) dovrebbe poter risuonare alta e forte, libera ed autorevole anziché attutita o mormorata a mezza bocca per non indispettire l’interlocutore.
E che il successore di Bismarck sia oggi costretto ad applicare la dottrina del Cancelliere di Ferro fino a sottostare a mortificanti compromessi – come il recente viaggio solitario a Pechino o, da ultimo, la sordina inizialmente impressa al crescendo di voci levatesi in Europa per misure condivise a fronte del disastroso fallimento della strategia cinese “Zero Covid” – ne è una delle conferme più plateali, tale da suscitare preoccupazioni per la tenuta futura della solidarietà europea e della stessa comunità occidentale. Per non menzionare la già infragilita leadership tedesca in Europa e le crepe manifestatesi nell’asse Berlino-Parigi.
Né può affermarsi che la Francia di Macron vada esente dalle costrizioni cui è indotta dalle dipendenze della mondializzazione e dal potere giugulatorio esercitato in particolare dalla Cina: basti pensare all’ansiogeno scarseggiare nelle farmacie del paracetamolo, qui considerato un toccasana multiuso, accentuatosi con la recrudescenza del Covid in Estremo Oriente, che espone il Governo francese a quotidiane querimonie e rampogne specie da parte della destra identitaria.
Pur in tale sfavorevole cornice, il giovane Presidente – nonostante l’accavallarsi di crisi drammatiche e un malumore sociale diffuso che tende ad addossargli tutte le responsabilità – non sembra voler demordere né dal suo originario intendimento riformatore né dalla sua fedeltà originaria ad alcuni principi e valori fondativi del suo progetto di radicale trasformazione della vita politica francese, con il superamento delle vecchie logiche partitiche e ideologiche.
E se l’annuncio del mantenimento del disegno di legge sul nuovo regime previdenziale fa tremare proprio in questi giorni le vene dei polsi dei principali responsabili dell’Esecutivo quanto a probabili e già annunciate mobilitazioni di protesta e al perdurante incubo dei Gilets Jaunes (pur nella quasi olimpica tenacia esibita pubblicamente dalla Prima Ministra e dai Ministri coinvolti, in particolare quelli dell’Economia e del Lavoro), l’Eliseo non manca, dal canto suo, di valorizzare l’impegno costante profuso dalla Francia in materia di disuguaglianze e di tutela dei diritti umani. E questo con la legittima fierezza di chi ne rivendica l’originaria “paternità” fondatrice, venata, può forse chiosarsi malignamente, da qualche colpevole resipiscenza per l’uso che della Dichiarazione del 1789 (confluita nel 1948 in quella universale delle Nazioni Unite) è stato fatto nel Paese dei Lumi che l’ha originata: dai recenti ripensamenti sull’asilo fornito agli estradandi terroristi italiani ed alla prima rilettura critica della Dottrina Mitterrand, sino alla protezione estesa da Giscard d’Estaing all’Ayatollah Khomeini fino al suo trionfale ritorno in Patria ed all’inizio dell’attuale, sanguinoso regime teocratico.
Se, a dispetto di pur ricorrenti richiami specie in sede parlamentare, sulla tragedia degli Uiguri o su quella del lavoro forzato in Qatar l’approccio francese è apparso felpato e ispirato alla cautela propria alla più disincantata delle “realpolitik”, va riconosciuto all’Eliseo un “record” quasi impeccabile, per tempestività e fermezza, nel condannare la disumana repressione iraniana dei movimenti femminili e popolari di protesta contro il regime dei Mollah. L’omaggio alle donne iraniane e le esplicite espressioni di ammirazione nei loro confronti e di contestuale riprovazione della teocrazia di Teheran sono state scandite, con inequivocabile chiarezza, dal Presidente Macron all’Eliseo fin dal 14 novembre scorso e, poche settimane dopo, confermate a due voci con Biden alla Casa Bianca, in occasione della visita di Stato a Washington, con accenti stavolta minacciosi e ultimativi. Una linea di fermezza che è valsa a Macron i fulmini e le invettive di Teheran, ma che convince e seduce la pubblica opinione francese, avvezza ad una diffusa familiarità con la cultura iraniana (dalla letteratura al cinema), come attesta nei tanti talk shows di ogni orientamento la presenza costante ed efficace di protagoniste della “rivoluzione” in corso, protette e vezzeggiate dalla Francia. E questo al di là del “clivage” fra la destra ed una sinistra che, persino sul fronte per lei tradizionalmente prioritario dei diritti, appare in questa fase come smarrita e indecisa, dilaniata al suo interno da divergenze e contrapposte ambizioni, dalle ambiguità sulle scelte identitarie e laicistiche sino a quelle delle più avanzate istanze eco-femministe.
Le incognite sul futuro del pianeta e sulle nostre sorti sembrano indurci a rispolverare l’antico detto “hic sunt leones” (i medievalisti francesi usavano la variante, forse più evocativa ed appropriata ai nostri tempi, di “dracones”…). Se sul piano dei territori inesplorati, almeno in parte, rimane per noi lo spazio, su quello della geopolitica siamo chiamati ad un inedito risveglio delle coscienze e ad un radicale e rivoluzionario sforzo inteso ad affrontare e a sormontare le grandi sfide del nostro tempo, da quella ambientale a quella della rifondazione di società più pacifiche e più giuste. La stella polare rimane, malgrado tutto, quella del rispetto dei nostri comprovati ancoraggi: fra questi l’inaspettata resilienza dell’Occidente ci richiama ad una rivisitazione del concetto stesso di sovranità, intesa non già come angusta rivendicazione nazionalista, ma come autentica e rassicurante capacità di indipendenza e di irradiazione, pazientemente costruita soprattutto nella sua dimensione europea ed euro-atlantica.
Giovanni Caracciolo di Vietri, Ambasciatore d’Italia a riposo, ha prestato servizio, all’inizio della carriera, come addetto al Gabinetto di Aldo Moro e successivamente presso le Ambasciate di Addis Abeba e Washington. A Roma, collaborato con il Presidente Francesco Cossiga per tutto il suo settennato. Al Ministero degli Esteri, ha ricoperto gli incarichi di Vice Direttore Generale dell’Emigrazione e degli Affari Sociali, poi di Direttore Generale dei Paesi dell’Europa. È stato Capo Missione a Belgrado, a Ginevra ed a Parigi. Terminato il servizio attivo, nel 2013 gli è stata affidata la guida, per i successivi sei anni ed in qualità di Segretario Generale, dell’Ince, la più antica organizzazione di cooperazione regionale intereuropea operante nei Balcani e in Europa centrale. Ha collaborato a Il Commento Politico con le Lettere da Parigi, con il nom de plume de l’Abate Galiani.