Purtroppo per Joe Biden, il quieto ma insistente dibattito che si riflette sui media di tutto il mondo, e che riguarda la sua presunta capacità o incapacità di capitanare un eventuale nuovo mandato, è insieme irrilevante e penoso. Il grosso del dibattito elettorale oggi in corso riguarda proprio tale quesito, anziché esaminare criticamente e valutare il resoconto di quanto compiuto nei quattro anni alla Casa Bianca, come sarà comunque inevitabile il prossimo anno. Nell’attesa, i dubbi e i timori sono di facciata.
Si possono avere opinioni, ma nulla che Biden possa dire o fare in merito potrà convincere gli elettori, per mettere fine a questa penosa situazione. Tra un anno, i votanti decideranno e renderanno irrilevante l’irritante dialogo odierno sul valore degli inciampi e quello sulle pause inattese. Nel frattempo, il fatto che il dibattito politico ruoti intorno a questo imponderabile fattore personale rischia di distrarre gli americani, e non solo loro, in un momento delicato per la loro nazione e per la situazione mondiale.
Da un lato si prepara un candidato, ben conosciuto, per una nuova consultazione elettorale che tra un anno dovrà decidere se affidargli un ultimo mandato per altri quattro anni, quasi un viatico, o se invece cedere il passo a una nemesi di nome Trump, anche lui ben noto. Una contrapposizione polare. Sarebbe più comprensibile se ci fosse una gara interna al partito per favorire l’ingresso di nuovi candidati per fruire della sua eredità politica, ma non è così… almeno per ora.
Dall’altro si ha invece un personaggio che sembra estratto dai “comics” degli anni ’50, è vero, ma resta uno che tocca la psiche americana in punti sensibili. È l’erede di tratti caratteriali memorabili dei tempi passati, una specie di un moderno Tom Sawyer: monelli, ma sempre perdonabili; la loro incarnazione con l’atomica nella saccoccia in questi nostri tempi pericolosi ed estremi invece è meno tollerabile, e ancor più in una democrazia che si è davvero materializzata attorno all’idea di scrivere ed osservare regole comuni e concordate – ma ha sempre conservato ammirazione per chi vi trova lo spazio per imporre le proprie.
Resta che gli attacchi dei conservatori a Biden sulla base della sua senescenza – giustificabili o meno – sono in effetti una ammissione di quanto Biden sia visto con preoccupazione dal lato repubblicano, non per l’effetto della sua oratoria, né per il timore che governando danneggi il Paese, ma per la presa che mantiene sull’elettorato a dispetto di tutto: certo non plebiscitaria, ma reale e resistente.
Su questo sfondo, con gli attacchi che subisce dalla destra, il Presidente dimostra di aver già ricevuto l’investitura dei suoi avversari e naturalmente il suo rango assicura fin dalla partenza un posto riservato dal partito, ma dovrà ugualmente affrontare le primarie, che non sono uno scherzo – specialmente se questa sua immagine senescente lo renderà vulnerabile. Solo al loro termine, alla Convention del partito, Biden sarà ufficialmente il candidato del 2024; intanto il suo partito avrà esibito probabilmente una nuova covata di futuri aspiranti alla leadership politica, che ritroveremo al cuore del dibattito per il prossimo decennio.
Intanto, se Atene piange, Sparta non ride: in questi giorni è maturata in casa repubblicana una vicenda senza precedenti, che ha condotto alla rimozione di Kevin McCarthy, Speaker della Camera, leader del partito alla Camera dei Deputati e secondo nella scala di successione presidenziale dopo il Vice Presidente. Negli intervalli fra le frecciate a Biden, tra i Repubblicani si è svolto infatti un inatteso dramma: McCarthy è caduto vittima di una faida interna che lo ha visto soccombere sotto gli assalti di un gruppo oltranzista in seno al suo partito ed è stato rimosso dal suo incarico da una fazione estremista del partito (assistita dai voti dei Democratici felici di far danno agli avversari), un fatto senza precedenti. McCarthy è un rappresentante di una politica conservatrice vigorosa ed intransigente, ma rispettosa delle esigenze del Paese nel suo insieme. La sua disponibilità a negoziare con i Democratici intese parziali e temporanee destinate a salvare la governabilità, mentre rimaneva il disaccordo con le linee politiche da seguire, ha avuto successo più volte ma è stata vista come una debolezza e un cedimento a favore di Biden. Ne derivava la percezione di una sua riserva nei riguardi della frangia estremista dei Repubblicani trumpisti, che hanno reagito con veemenza e hanno così ulteriormente confermato il loro dominio nel partito. McCarthy ha in realtà usato il suo incarico nell’interesse del Paese, e non nell’interesse di Trump: e questo non gli è stato perdonato.
È un duro segno del dominio spietato della frangia oltranzista sul corpo di un partito che vanta un passato ricco di momenti illustri. Il candidato alla successione sarà nominato a breve dai Repubblicani, che sono in maggioranza nella Camera; sin d’ora è evidente che nel prossimo futuro resterà quasi impossibile governare dal centro, come tante altre volte nel passato si è fatto, nell’interesse del governo della nazione.
L’accaduto segna intanto la fine della posizione autorevole del Partito Repubblicano come lo abbiamo conosciuto nella storia degli Stati Uniti, coi suoi alti e bassi, trasferendo la sua restante autorità a favore di un movimento che non ha ancora espresso compiutamente la sua essenza ideologica – ma che manda segnali oltre misura preoccupanti. È oggi un partito transazionale, per il quale non sappiamo quanto conti la continuità, oppure quanto valgano gli ideali dei fondatori, di cui questa nuova generazione di politici conservatori sembra pronta a sbarazzarsi.
Allora, se si esclude la questione gerontologica, il terreno di battaglia per l’anno venturo normalmente tornerebbe ad essere il solito: l’economia.
È ancora valida la storica risposta: “It’s the economy, stupid!”, attribuita al Democratico Carville trent’anni fa? Certo sarà uno dei nodi. Ma Biden – soprattutto se continuerà a produrre cifre e statistiche invidiabili – sarà comunque attaccato su altri fronti.
Dai tempi di Carville, i fattori di base sui quali farsi un’idea dell’andamento della politica sono molto cambiati. L’America navigava allora l’ondata trionfale del crollo sovietico, non si sentiva più sfidata nel mondo e meno ancora destinata a soffrire le piccole e le grandi umiliazioni risultanti dalla sua persistente hubris. Nel mondo, l’implicita “leadership” che allora sembrava quasi spettare di diritto a chi parlava per gli States è stata erosa e non è più scontata sempre e ovunque. Su questo sfondo, il ripudio dello spirito della democrazia salvandone alla meglio solo i segni esteriori, non è un fatto consumato, ma con un Trump che ha saldamente in pugno la macchina del partito tutto diventa commerciabile ed aleatorio.
Su tutto questo scenario, aleggia tuttavia un fattore ancora difficile da valutare: che effetto avranno gli innumerevoli processi cui Trump dovrà far fronte, che vanno dai reati finanziari al vero e proprio tentativo di sovversione della democrazia. Trump riuscirà a navigare nell’arcipelago processuale in cui si trova? Non è impossibile che contro di lui venga invocato il 14mo emendamento della Costituzione, che vieta l’accesso a ogni carica Federale a chi sia stato colpevole di sedizione contro l’Unione. Pochi credono nell’innocenza di Trump nel gennaio 2021, ma occorre un verdetto; e la Corte Suprema, che Trump ha imbottito di conservatori, potrebbe non permetterlo. Per ora, la giustizia ordinaria lo colpisce dove è più vulnerabile, cioè il portafoglio, e a New York il suo impero immobiliare è nel mirino.
Ma non ci si deve fare illusioni: la gravità delle accuse è tale, e la polarizzazione degli americani è tale, da far dubitare che il Paese accetti senza ripercussioni il verdetto della giustizia. Sarà una prova severa per la democrazia americana, al suo interno e verso l’esterno: le conseguenze non resteranno nei confini del Paese.
Francesco Olivieri è stato un diplomatico italiano che ha lavorato negli Stati Uniti, in Venezuela, a Bruxelles, in Cina, in Italia per il Ministero del Commercio Estero. È stato ambasciatore in Cecoslovacchia (poi ristretta a Cechia) e in Croazia, quindi Consigliere di politica estera del Presidente del Consiglio e per tre anni Sherpa del G8, infine ambasciatore all’OCSE, alla Agenzia Spaziale Europea e alla Agenzia Internazionale per l’Energia. Lasciata la Farnesina, ha lavorato con l’Enel in Italia e poi nuovamente negli USA, dove ha aperto la sede di Washington dell’azienda italiana. Ha scritto le “Lettere da Washington” per Il Commento Politico con il nom de plume Franklin, mosso dall’istintiva simpatia per un grand’uomo che aveva sense of humor, nella sua vita era stato un diplomatico di successo e per di più aveva – come Franklin – l’abitudine di inventare congegni pratici, nel suo rifugio in Pennsylvania.