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La vittoria della destra italiana, le reazioni in Francia

di Giovanni Caracciolo

PARIGI – L’inedita tela di fondo sulla quale si vanno inanellando le reazioni internazionali alla vittoria delle destre in Italia, con l’affermazione clamorosa di Giorgia Meloni a discapito dei suoi due alleati, è quella, drammatica, della guerra in Ucraina e del dissesto economico e sociale che ne consegue e che insidia persino il nostro consolidato modo di vivere.

Un campanello di allarme tanto più sconcertante nel contesto di unanime apprezzamento che aveva caratterizzato l’operosa compostezza dell’era Draghi e che aveva fatto maturare una diffusa, quanto ingannevole, convinzione che l’Italia (influente ed ascoltato membro del “redivivo” consesso solidale dell’Occidente) fosse ormai al riparo da nuove, epocali turbolenze.

Al netto degli stereotipi sull’instabilità di una democrazia forgiatasi nel segno dell’innata fragilità delle sue istituzioni e della volatilità dei suoi governi, era inevitabile che, fra le reazioni, figurasse quella di impronta ideologica. Quasi acriticamente, come rispondendo ad un istinto pavloviano, si sono moltiplicati i riferimenti al neo-fascismo e al “pericolo bruno”, non solo nelle “grida” massimaliste delle sinistre più radicali, come in Francia le componenti in particolare eco-femministe della Nupes che cercano in tal modo di far dimenticare le proprie traversie interne. Persino nelle più misurate dichiarazioni di leaders politici solitamente equilibrati è emersa la tentazione di sintetizzare la loro percezione negativa del risultato del 25 settembre, ricorrendo alla semplificazione del ritorno alla fascinazione fascista e ai fantasmi di un autoritarismo anti-democratico, minacciosi tanto per l’Italia che per il futuro dell’Europa. E se la più indigeribile rimane al riguardo la “gaffe” della Presidente von der Leyen alla vigilia del voto, al medesimo spirito vanno ascritte – al netto di ovvie motivazioni di politica interna – le sibilline “frasette” del Presidente Biden o della Prima Ministra Borne ed i loro moniti all’osservanza dei diritti fondamentali, e non solo in casa loro. Sul tema, è poi tornata in maniera più esplicita ed inopportuna la Ministra francese per gli Affari Europei, costringendo i massimi vertici istituzionali a Roma ed a Parigi ad intervenire: a conferma di quanto la pregiudiziale ideologica abbia inizialmente fuorviato una lucida e ponderata visione delle autentiche istanze in gioco in materia di diritti civili.

Ma non può stupirci del tutto che questa lettura – amplificata dalla approssimazione lessicale, concettuale e temporale della moderna comunicazione telematica – sia inizialmente prevalsa, se anche da noi ne è stato, in campagna elettorale, fatto un uso prevaricante, rispetto alla nitida enunciazione di un autentico e convincente progetto alternativo alle promesse della destra.

Quel che più rileva è che l’esito delle elezioni legislative in Italia sia ora diventato oggetto di analisi meditate che entrano nella formulazione delle strategie che si prospettano ai nostri partners soprattutto europei: vi è da auspicare che se ne possa far tesoro nell’approfondimento delle condizioni cui dovranno sottostare le fondamentali scelte che si prospettano a casa nostra. Specie se contribuiranno a dirimere il dilemma tuttora irrisolto fra opzioni ispirate alla “reazione” o ad un moderno conservatorismo illuminato, dipanando uno dei nodi centrali del populismo, quello della contrapposizione fra “popolo” ed “élites”, come sembra suggerire il ricorso alla nuova formula (per l’appunto di conio francese) del “tecno-sovranismo”.

Non sorprende davvero la dovizia, quantitativa e qualitativa, dei commenti moltiplicatisi in Francia (spesso pro domo sua) sin dalle prime ore del 26 settembre; affidati stavolta da tutti i media in frenetica concorrenza fra loro non soltanto all’abituale, sparuto drappello di esperti accreditati, ma ad una cerchia allargata di esponenti dell’élite intellettuale e politica, dal controverso filosofo Onfray sino all’ex Ministro degli Esteri socialista Védrine.

Anche chi dubita della considerazione che in Francia si riserva all’Italia e ad un’imparziale concezione del rapporto fra le due sorelle latine d’Europa, sa bene che da sempre si osservano con vigile attenzione gli accadimenti politici nel nostro Paese come altrettanti (e significativi) prodotti di un laboratorio politico originale, non di rado precursore ed ispiratore di idee e progetti per i suoi vicini europei. Mai come questa volta, tuttavia, il successo di una destra di governo è stato scrutato con tanta diligenza e fervore, sia dalle componenti politiche più direttamente interessate che dall’area governativa.

Fra le tante elaborazioni sul nazionalismo populista e sovranista è emerso con chiarezza – e vi si sono soffermati ovviamente soprattutto i diretti interessati, Marion Maréchal Le Pen e Eric Zemmour – come l’impresa di Giorgia Meloni vada qui considerata uno stimolo esemplare nel progetto, arenatosi per ora nel deludente risultato elettorale di Reconquete, di una riunificazione delle destre, fondata sui valori identitari e volta al recupero “tout azimut” di una restaurata sovranità nazionale. Più tiepida è apparsa la pur compiaciuta reazione di Marine Le Pen che, in linea del resto con l’antico e radicato sodalizio con Matteo Salvini, è attenta a non avallare né le discusse posizioni in materia di diritti civili e di famiglia (su cui ha di converso centrato le sue nuove aperture e la sua riuscita “banalizzazione”), né la fermezza delle ribadite posizioni anti-russe e filo-atlantiche della nostra premier in pectore. Un distinguo che potrebbe persino aver concorso alla formulazione della lunare invettiva messianica di Putin sul nefasto contagio potenziale del decadentismo libertario e profanatore dell’Occidente.

Macron, dal canto suo, sembra voler ispirarsi ad una prudente attesa ed interviene con misura per spegnere i primi focolai di dissenso sul nascere: sa come, soprattutto in questo momento, la coincidenza di interessi europei potenzialmente condivisi, in particolare in materia di energia, di riforma delle regole e del Patto di Stabilità, non potrà venir pretermessa a cuor leggero da Roma. Confida anche nella solida cornice di riferimento andata edificandosi in questi anni grazie all’intesa con il Presidente Mattarella e culminata nella sottoscrizione del Trattato del Quirinale. Un piccolo patrimonio che, vi è da augurarselo, potrà reggere all’urto della diffusa diffidenza transalpina nei confronti della Francia, della sua condiscendenza considerata altezzosa e prodromica di tentazioni vere o presunte di conquiste economiche e finanziarie in terra italiana.

Molto si giocherà, inoltre, sul peso che assumeranno i rapporti di forza e la primazia delle strategie “muscolari”. Queste sembrano oggi prevalere un po’ dappertutto: dai parossismi del Cremlino sino alle incrinature della solidarietà europea introdotte con i recenti proclami tedeschi in materia di energia, in nome del prevalente interesse nazionale. E lo stesso Macron non sembra esserne del tutto esente, come indica l’idea di una minaccia ormai esplicitata di dissoluzione del Parlamento quale strumento per far passare di forza, entro i prossimi mesi, le sue riforme e più in generale risolvere alla radice, con una aleatoria e rischiosa scommessa, l’ostacolo del complesso rapporto fra Esecutivo e Legislativo: al centro dell’affanno crescente del sistema semi-presidenziale e della stessa tenuta delle istituzioni democratiche.    


Giovanni Caracciolo di Vietri, Ambasciatore d’Italia a riposo, ha prestato servizio, all’inizio della carriera, come addetto al Gabinetto di Aldo Moro e successivamente presso le Ambasciate di Addis Abeba e Washington. A Roma, collaborato con il Presidente Francesco Cossiga per tutto il suo settennato. Al Ministero degli Esteri, ha ricoperto gli incarichi di Vice Direttore Generale dell’Emigrazione e degli Affari Sociali, poi di Direttore Generale dei Paesi dell’Europa. È stato Capo Missione a Belgrado, a Ginevra ed a Parigi. Terminato il servizio attivo, nel 2013 gli è stata affidata la guida, per i successivi sei anni ed in qualità di Segretario Generale, dell’Ince, la più antica organizzazione di cooperazione regionale intereuropea operante nei Balcani e in Europa centrale. Ha collaborato a Il Commento Politico con le Lettere da Parigi, con il nom de plume de l’Abate Galiani.  

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