Nella doppia ecatombe del Medio Oriente, la carneficina di civili dovuta all’attacco di Hamas e il conseguente massacro di gazawi vittime collaterali della risposta israeliana – l’Europa ha un ruolo limitato: esprimere la sua solidarietà a Israele, invitarlo alla proporzionalità nell’attacco alla Striscia, fornire aiuto umanitario. Tre compiti ribaditi anche dalla recente risoluzione del Parlamento Europeo, ai quali l’UE adempie, seppure tra mille difficoltà e in attesa degli sviluppi sul terreno. Molto altro, in questa fase, non pare possibile. È al “dopo la tempesta” che l’Unione Europea deve prepararsi, delineando le sue responsabilità prioritarie.
La prima è sottrarre Gaza al controllo di Hamas, minaccia per Israele ma anche per un qualsiasi futuro dei palestinesi.
Nelle precedenti operazioni nella Striscia, Israele non è mai riuscito a intaccare la capacità militare di Hamas, che anzi ha guadagnato popolarità spacciandosi per baluardo di Gaza. Oggi la risposta dell’IDF, le Forze di difesa israeliane, è molto più dura, ma per Hamas è anche più ampia la rete di appoggi internazionali, che si estende ad Ankara e forse fino a Mosca e addirittura a Pechino, senza contare la tragica “arma” degli ostaggi in suo possesso, e anche il sostegno nel mondo alla causa palestinese.
L’Occidente dovrebbe ricordare la lezione dell’irriducibilità dei talebani, che hanno retto militarmente a una pressione continua durata venti anni. Come scrivevo nel febbraio del 2022 su Toscana ebraica, «Quel “Dio è il più grande” risuona dall’Afghanistan in altre terre che si considerano irridente, e dopo la caduta di Kabul è un grido vittorioso e trova una forza nuova, ispira, incoraggia. Anche a Gaza. Il ritiro della NATO & C. resterà a lungo una fonte d’ispirazione, la dimostrazione che è possibile vincere contro le forze armate – eserciti e aviazioni – più moderne. Se gli americani e gli europei sono stati sconfitti, si ritiene che un giorno potrà toccare anche agli israeliani. Per far questo ci vuole tempo, saper aspettare. I talebani lo hanno sempre detto: non abbiamo fretta. È la forza su cui fanno conto molti altri, tutt’altro che scoraggiati dagli apparenti successi di tappa dei loro avversari – anche in Palestina». In definitiva, come conciliare la fine del potere di Hamas e la sua resilienza, resta il nodo principale per Israele e non solo. Potrà aiutare il perseguimento della seconda sfida che si presenta all’UE.
Gaza è oggi sulla bocca di tutti, ma in pochi ci sono andati e poche fra le abbondanti analisi sono basate su una conoscenza effettiva della Striscia, che rimane da quindici anni “invisibile” agli occhi dell’Occidente, nonostante sia quasi davanti alle coste di Cipro, dell’UE. Come in un viaggio in un terra distopica, sono anni che Gaza si presenta come una grande prigione dalla quale in pochissimi possono uscire, con il contagocce e con procedure estenuanti che sono la vessazione di un intero popolo. E lì arriva a stento lo stretto essenziale per la sussistenza di una società, mai il pur necessario “superfluo”.
Un blocco per persone e merci disumano e inefficace, poiché non ha impedito il rifornimento di un arsenale militare inspiegabile perché possibile solo attraverso i tunnel scavati sotto i pochi chilometri del confine con l’Egitto – ostile ad Hamas quanto lo è Israele – per altro separato da una banda di interposizione sotto controllo dell’IDF. Un blocco permeabile alle armi, ma che da anni chiude oltre due milioni di abitanti in una terra 10 per 40 chilometri, con una densità di 6.500 persone per kmq (e non a Gaza città, ma nell’intera Striscia) e con la metà della popolazione sotto i 19 anni.
A lungo l’Unione Europea si è rifiutata dal riconoscere a voce alta l’insostenibilità di questa condizione, così come oggi pare vedere meno, al cospetto delle vittime trucidate da Hamas e del dramma degli ostaggi, gli oltre cinquemila morti civili provocati dai bombardamenti israeliani (stima ONU al 23 ottobre, quasi metà dei quali, si dice, bambini). Una cecità che oggi le attira da più parti la sgradevole accusa di adottare due misure e due pesi, e che le ha anche impedito di valutare in quale misura il blocco di Gaza sia il migliore incubatore di esasperazione e di fondamentalismo jihadista: una situazione assurda rispetto alla sicurezza di Israele, che infatti ha fallito, e ignobile rispetto a un’idea di civiltà – che ha anch’essa fallito. La sconfitta di Hamas – e la sicurezza di Isarale – passa anche attraverso la fine del blocco della Striscia.
Annientare o quantomeno indebolire Hamas, e liberare Gaza dall’asfissia degli ultimi quindici anni sono questioni intrecciate, che pongono anche una terza questione di fondo: chi dovrebbe provvedere al controllo della Striscia? Gestire un fazzoletto di terra con oltre due milioni di persone, povere e traumatizzate, e alcune anche radicalizzate, non è compito facile per nessuno. Sarebbe improponibile per Israele, il quale ha evocato la possibilità di creare una zona cuscinetto di sicurezza oltre la sua frontiera meridionale – una soluzione di dubbia utilità e che ridurrebbe il già ristretto spazio vitale dei cittadini di Gaza. Quanto all’Autorità Palestinese di Ramallah, ha fin qui dimostrato sbandamenti politici e scarsa capacità operativa, se non proprio cultura di governo – e a Gaza ha perso da anni un suo radicamento. La Striscia non è certo terra per la NATO, e nemmeno per un Erdogan sbilanciato a favore di Hamas in modo spregiudicato. La Lega Araba potrebbe assumere un ruolo importante, ma ha poca esperienza di missioni sul terreno.
Il compito è eminentemente per le Nazioni Unite, che, da Timor al Kosovo, ha già governato, traghettando territori a lungo violentati a una maggiore stabilità, e che, attraverso l’UNRWA, sfama e alloggia centinaia di migliaia di abitanti di Gaza, prima della guerra e ora in condizioni ancora più drammatiche. Ma l’ONU, e soprattutto Israele, potrebbero aver bisogno proprio dell’Unione Europea, che conosce già il terreno, che ha una posizione inequivocabile rispetto ad Hamas, e ormai ha una competenza di missioni in zone critiche che combinano una dimensione militare e una civile e di sviluppo.
A fianco dell’ONU e per un periodo transitorio, un ruolo nel controllo della Striscia è un compito complesso ma anche riparatore di un oblio, e un’occasione per rilanciare la presenza dell’UE nella regione e nel mondo. I costi sarebbero elevati, ma lo sono già quelli degli aiuti alla Palestina o alla sola Gaza, e quelli dovuti al perdurare di una crisi che è stata lasciata imputridirsi. Sarebbe una missione difficile, ma anche e soprattutto la definizione del perimetro di sicurezza di un’Unione Europea che ha bisogno di rimboccarsi le maniche per disinnescare il più esplosivo focolaio del Medio Oriente, altrimenti detto, il “Vicino” Oriente.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.