BRUXELLES – Hanno tutti ragione. Non è decente proseguire in un “business as usual” con sistemi economici che sono figli diretti di regimi dispotici, è inaccettabile vedere del sangue su ciò che importiamo e sui nostri profitti. Occorre sviluppare sempre e comunque le relazioni commerciali, perché costituiscono uno dei pochi strumenti per creare maggiore inter-dipendenza anche tra sistemi diversi, ciò che dovrebbe portare più stabilità e più pace, facendo prevalere l’antico interesse del mercante e dell’acquirente su quello del guerriero. Non è possibile “esportare la democrazia”, esercizio che ha prodotto più danni che benefici, forzando i tempi, mascherando di buone parole un nuovo colonialismo. È un dovere, ed anche nel nostro interesse, aiutare le opposizioni democratiche di paesi dispotici, sostenerle con ogni mezzo, non lasciarle sole in una lotta altrimenti ancora più impari. La politica estera deve essere, per definizione, pragmatica e realistica, dovendo interloquire anche con chi non condivide i nostri valori, metodi e obiettivi. La politica estera, per essere efficace, deve avere una sua dimensione etica, perché solo in questo modo avrà una luce, un’energia, una capacità di attrazione… Devo continuare?
La conciliazione tra queste posizioni è ardua, il dialogo tra i distinti approcci sempre molto problematico. Anche ex-post: le conclusioni di una valutazione dei “risultati” non conduce ad alcun porto sicuro. Due decenni di impegno costruttivo con la Russia, tutto imperniato su un equilibrio commerciale e su un dialogo anche difficile ma continuo, hanno portato alla guerra. Le sanzioni a Cuba, o anche al Venezuela, o a Myanmar e all’Iran, non hanno indebolito le cricche al potere. Il bilanciamento tra critica agli abusi dei diritti umani perpetrati dalla Cina comunista, e massicci investimenti reciproci, può essere considerato tanto un pasticcio in termini di relazioni bilaterali quanto un ottimale modus operandi tra sistemi diversi.
Cina e Iran sono due casi esemplari, e inconcludenti. L’Europa – e vale tanto per l’opinione pubblica che per buona parte delle sue istituzioni – vuole aiutare la piazza di Teheran, e così gli uiguri reclusi nei campi di concentramento, gli studenti di Hong Kong, i monaci tibetani che a decine si sono immolati. Nessuno sopporta di assistere impotente al massacro di dimostranti non-violenti. Si sono spese molte parole e si è anche passato all’azione – sanzioni contro l’Iran, blocco del cruciale Comprehensive Agreement on Investments per la Cina (tra le altre cose, e nonostante forti interessi a favore dell’accordo) – e tuttavia né il bastone né la carota hanno davvero fatto la differenza. Se questo non è accaduto per paesi giganti e autosufficienti, ma nemmeno per altri più piccoli (la Cambogia a cui sono stati revocati importanti benefici commerciali), è anche perché il mondo è ormai multipolare e nessuno dipende più solo dall’Occidente. Più di altri, il Parlamento Europeo ha levato la sua voce, esercitando il ruolo di guardiano morale: il risultato è il congelamento di ogni contatto formale e sostanziale con Cina e Iran, che non per questo non vanno avanti per la loro strada.
In entrambi i casi – così come per la Birmania e altri paesi – l’Europa ha adottato anche il temibile strumento delle sanzioni individuali, relativamente recente. A nessuno fa piacere essere bandito dall’Europa, non avere più accesso a cure ospedaliere, conti bancari o anche solo vacanze in quella parte di mondo dove tali servizi sono generalmente i più attraenti. Le sanzioni individuali restano uno stigma pesante, ma per alcuni pezzi degli apparati diventano una medaglia da esibire.
Ogni volta, dunque, si riparte da zero, ogni caso è diverso, richiede un percorso dedicato, a volte più assertivo, altre più pragmatico. Ragione di Stato e strenua difesa dei diritti umani si sfogliano a vicenda, si sostengono o si contraddicono vicendevolmente – non c’è una strada maestra. In questa ricerca dello spiraglio più adatto, nessuno, però, pensi che si viva sotto il sole del relativismo: la promozione dello Stato di diritto e dei diritti della persona resta, in ogni caso, la bussola dell’Europa, obiettivi da affermare in qualsiasi strategia regionale, accordo commerciale, forum multilaterale, visita ufficiale. Il fine, questo fine, è, in fondo, una questione esistenziale per l’Europa, o quantomeno di identità. È il senso della marcia promossa dal Partito Radicale lo scorso 10 dicembre e delle numerose altre che nel mondo continuano a favore della protesta iraniana, è il senso degli striscioni su Zaki issati da tanti comuni d’Italia: iniziative che non hanno ancora liberato nessuno ma che offrono un vero conforto alle vittime anche in paesi lontani, e che danno una sorta di autostima all’Europa, perché avvertiamo di fare la cosa giusta. Anche se ogni manifestazione, ogni appello non può che essere un primo passo, è sempre, per definizione, il monito del mai abbastanza, del dover osare di più, molto di più. Non sempre è facile; è ad esempio il calvario della Svezia e della Finlandia, e non solo, al cospetto dell’aut-aut tra entrare velocemente nella NATO e sacrificare l’ospitalità a perseguitati politici. Come molte volte che ci guardiamo allo specchio, dobbiamo accettarci per quello che siamo – nessuno è migliore della realtà che gli è imposta.
Lo zibaldone dei casi che potrei citare è voluminoso: Iran, Cina, ma anche Afghanistan. Cosa dobbiamo fare con i talebani? Quale argomento può persuaderli, così indifferenti a relazioni commerciali, e anche allo stato di malnutrizione della loro popolazione? Cosa con tutti quegli afghani che chiedono di lasciare il paese? Possiamo accoglierli tutti, svuotando così definitivamente l’Afghanistan di ogni residuo di classe media, di potenziale classe dirigente, e lasciando lì solo i più poveri, chi non parla nessuna lingua e nemmeno sa come rivolgersi a un’ambasciata straniera per scappare?
I sensi di colpa, o l’analisi del fallimento, si accumulano. Basti pensare al disinteresse che nel 1994, in nome della realpolitik, circondò il genocidio dei tutsi in Ruanda. Sarebbero bastate poche migliaia di truppe straniere ben equipaggiate e motivate per fermare la mattanza di quasi un milione di civili, massacrati uno a uno, senza nemmeno sparare un colpo di artiglieria. In quel caso, come per la vicenda afghana ormai dimenticata, per i curdi o gli abitanti di Gaza, sono spesso i media a condizionare gli umori dell’opinione pubblica e conseguentemente la politica – e questo introduce un altro filone sul perché e sul come si possa prediligere l’interesse contingente alla dimensione etica, o viceversa.
È una vecchia storia: la mano destra e quella sinistra operano diversamente, e può anche andare bene così. Ma occorre che la destra sappia cosa fa la sinistra, e perché. E viceversa.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.