di Niccolò Rinaldi
In Europa si commemorava la Giornata della Memoria, a Gerusalemme Est (Israele? O Territori Palestinesi, secondo quanto riconosciuto dall’Unione Europea e dal diritto internazionale) veniva perpetrato uno dei più odiosi attentati degli ultimi anni: sette persone massacrate in una sinagoga. Pochi giorni dopo, nei pressi di un altro luogo di preghiera a Gerusalemme Est, altre due vittime sono state ferite. Gli attentatori, entrambi uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, erano due ragazzi: avevano rispettivamente ventuno e addirittura tredici anni.
La condanna istituzionale è stata unanime. Tuttavia a Jenin e a Gaza c’è chi ha festeggiato per strada l’eccidio, dopo che nove palestinesi, tra cui due civili, erano stati uccisi nel corso di un’operazione israeliana nel campo profughi di Jenin.
Così si presenta l’inizio del 2023, in linea con quello che soprattutto per i palestinesi è stato l’anno più sanguinoso dal 2004. Nel 2022 sono state uccise 146 persone, tra cui 34 minorenni, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e altre 32 a Gaza. Sempre nel 2022 è accaduto un altro fatto degno di nota: il quotidiano Haaretz ha distribuito in una sua edizione settimanale 90.000 copie di un rapporto molto critico verso le politiche israeliane, dal titolo eloquente: Not a “vibrant democracy”. This is apartheid.
A seguito dell’incursione a Jenin, l’Autorità Palestinese – che è assai poco autorità, priva di credibilità tanto interna alla società palestinese quanto agli occhi di Israele – ha sospeso il meccanismo di coordinamento di sicurezza con Israele.
In un territorio esiguo, estremamente controllato, e dove gli uni vivono di fatto accanto agli altri, non è probabile l’esplosione di un conflitto aperto, e la violenza andrà avanti con questo stillicidio di vite che più facilmente passa inosservato nei media e nell’opinione pubblica internazionale. Ma una cosa dovrebbe essere evidente a tutti: sono ormai venti anni che i dirigenti israeliani e quelli palestinesi, ognuno per quello che gli compete, hanno fallito nel fermare la mattanza, nel ripristinare un filo di dialogo costruttivo. Non a caso, dopo l’attentato alla sinagoga, il Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, si è recato a Gerusalemme e ha espresso tutta la preoccupazione americana per una situazione fuori controllo, “esortando” Netanyahu alla calma e a tenere la barra dritta sulla soluzione dei due Stati. Ad Abu Mazen, Blinken ha detto qualcosa di simile: ripristinare il coordinamento con Israele, e credere nei due Stati.
Dichiarazioni di buon senso, ma anche un disco rotto. E, con i propri territori a un centinaio di chilometri in linea d’aria, dovrebbe essere soprattutto l’Unione Europea a tentare di prendere in mano la situazione, ormai sfuggita a palestinesi e israeliani. Si fa presto a dire: Bruxelles è percepita come amica dai palestinesi, anche generosa per l’aiuto finanziario, ma svogliata e debole; e come un’alleata da Gerusalemme, ma inaffidabile perché a volte incapace di capire le ragioni di uno Stato ebraico e condizionata da un’opinione pubblica sempre più filo-palestinese (e, questione che deve restare separata, sensibile a rigurgiti evidenti di anti-semitismo). In realtà, quest’ultima chiede alle sue istituzioni di occuparsi di altre priorità, tanto da quelle terre non arrivano né terrorismo né migranti.
Eppure, Bruxelles, più prossima geograficamente e culturalmente e storicamente più legata alle vicende di questa terra così martoriata potrebbe osare quello che finora è mancato agli USA: cominciare a lavorare al superamento della prospettiva della soluzione dei due Stati la quale, ormai da anni, è incompatibile con la crescita esponenziale del numero di insediamenti e con una crescente promiscuità – e non solo fisica – di due popoli che condividono uno stesso ed esiguo spazio, vitale e identitario per entrambi. Non a caso, fino a oggi non solo ogni tentativo di separazione è rimasto senza esito, ma in realtà non lo si è nemmeno mai potuto cominciare, rassegnandosi alla mera, e alla lunga insostenibile per tutti, occupazione.
La levata di scudi istituzionale, da entrambe le parti, sarebbe scontata, così come la lista delle difficoltà oggettive per una qualsiasi alternativa che non voglia più separare due mondi che in modo cruento dimostrano di non voler stare insieme. Eppure, come la stessa “One Jerusalem” tanto voluta da ogni governo israeliano illustra anche al visitatore più superficiale, la separazione è politica, mentale, sentimentale, ma non geografica, e ormai nemmeno storica. È ormai impensabile la rimozione anche solo di una parte degli oltre seicentomila “coloni” residenti fra Gerusalemme Est e Cisgiordania e che costituiscono una serie di blocchi elettorali, ideologici, finanziari, perfino militari della società israeliana. Si ricordi quanto fu complesso per Sharon, che pure aveva autorevolezza sulla società israeliana, evacuare gli appena diecimila coloni di Gaza. È ingenuo concepire la sostenibilità di un’entità palestinese che sarebbe priva di una sovranità sulle sue risorse idriche, uno spazio aereo, delle frontiere esterne, un territorio minimamente composito. È inconcepibile che una qualsiasi autorità palestinese possa rinunciare a una fetta di sovranità, anche minima, sulla spianata delle moschee e sulla città vecchia (e ricordo come un esponente sionista a Bruxelles, molti anni fa mi confidò che “la battaglia decisiva è e sarà per quelle poche pietre della città vecchia, il cuore di tutta la contesa”). Non solo: ormai il 20% dei cittadini israeliani sono palestinesi, di una generazione sempre più assertiva dei propri diritti. Aggiungiamo anche che la crescita demografica in Palestina non si ferma (siamo a oltre due milioni a Gaza, a un terzo dei residenti legali di Gerusalemme, a tre milioni in Cisgiordania di cui oltre la metà hanno meno di 25 anni). La proposta di Trump, che fu irrisa anche dalla stessa Europa ed ebbe vita solo per qualche giorno, ebbe quantomeno il pregio di illustrare cosa potrebbe essere uno Stato palestinese oggi: una costellazione di centri abitati a malapena collegati tra di loro nel mezzo di un territorio controllato da Israele. Non sorprende dunque, come ricordava recentemente “Pagine ebraiche”, che la soluzione dei due Stati sia sostenuta ormai da appena un terzo di palestinesi e israeliani. Altri sondaggi indicano inoltre che essa non è considerata affatto la fine delle violenze – anzi.
Chi viaggi fra Gerusalemme e Betlemme, chi levi gli occhi dalle piazze di Ramallah o di Jenin e guardi gli insediamenti ebraici sulle colline circostanti, o chi si rechi in alcune cittadine israeliane a maggioranza araba, si rende conto che il mantra dei due Stati è probabilmente la maggiore menzogna della diplomazia internazionale. Una formula che fa comodo a tutti, perché indica un piano di azione, una “equa” soluzione, una scusa per poter continuare lo status quo politico, che da anni tiene fermo, non a caso, il cosiddetto “processo” di pace e che conosce solo una crescente quantità di lutti.
La città di Hebron è l’espressione dell’impossibilità della separazione, come della condivisione, con la sua città vecchia, dove si cammina sotto una rete che protegge dalla spazzatura gettata dagli abitanti delle case in spregio a chi cammina per questi vicoli, dove i negozi, un tempo di celebre prosperità, hanno saracinesche chiuse e coperte di graffiti. Chi perpetri cosa a chi è per certi aspetti quasi indifferente: sono tutti prigionieri, tutti nell’illusione di poter prevalere, pur abitando le stesse case, chi ai piani alti e chi al pian terreno. Ingannandosi che la convivenza non è necessaria perché tanto un giorno ci saranno i “due Stati”.
Una comune gestione del condominio sarà una sfida che richiede di aspettare almeno una generazione, un’opera di ingegneria costituzionale con soluzioni inedite, anche per la stessa formula dei due Stati. C’è chi è convinto che questi alla fine saranno uno comune tra Israele e Cisgiordania, con prerogative costituzionali proprie alle due comunità, e un altro, separato, solo per Gaza, sempre più vittima del suo scandaloso isolamento. Altri ancora – un coraggioso gruppo di cittadini israeliani e palestinesi – si sono presentati al Parlamento Europeo per proporre la creazione sì, di due Stati per i due popoli che tuttavia, con amministrazioni e legislazioni distinte ma coordinate, governino le rispettive comunità in un territorio comune – e chissà che non abbiano qualche ragione.
Lavorando in questa direzione con gradualità, lo scrittore Yeshoua ha per esempio proposto la concessione della cittadinanza israeliana ai palestinesi residenti nell’area C, sono “solo” 100.000 e da tempo soggetti in tutto all’amministrazione israeliana. L’alternativa è lo status quo di un’occupazione che può andare avanti a lungo, basata su pilastri quali ingiustizia, violazione del diritto, terrorismo, violenza – e menzogna.
Del superamento dell’idea quasi millenaria delle due terre promesse ormai parlano in molti, pur essendo un tabù politico per altrettanti. Anche nella diplomazia qualcuno dovrà pur cominciare a evocare la fine di questo sogno delle due entità del tutto separate, un sogno sul quale da trent’anni non si vede il benché minimo progresso e sul quale, infatti, nessuno lavora al di là del ripetuto mantra. Occorrerà tempo e creatività, ma l’Unione Europea conosce meglio di altri quanto lunghi siano i veri processi di cambiamento, soprattutto quelli che lavorano attraverso i tessuti delle società e non siano solo calati dall’alto. Assillata da molte altre preoccupazioni, l’Unione Europea può anche accodarsi al coro, e continuare a pronunciare il rassicurante ritornello dei due Stati per i due popoli. Nessuno la biasimerà per questo. Ma col passare del tempo la geografia si accorcia, e problemi non affrontati aspettando che vi siano condizioni migliori, possono poi diventare dei veri incubi – la vicenda del Donbass ne è un’illustrazione.
Nel frattempo, in uno dei cuori dell’Europa, a Firenze, il Rabbino Rev Joseph Levi ha ideato la Scuola di Alta Formazione per il Dialogo Religioso e Inter-Culturale, che presiede con l’Imam Izzedin Elzir. Anche se si tratta di un centro religioso e non politico, uno dei partner della Scuola è l’Istituto Universitario Europeo. Così, per tentare di rompere l’equilibrio del terrore e il birignao politico di formule datate, l’Unione Europea può pensare a costruire la pace guardando dove, in casa propria, hanno capito da dove si comincia.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.