WASHINGTON – Gli aspiranti candidati conservatori alla presidenza degli Stati Uniti si stavano già moltiplicando: oltre alla lista ufficiale che, insieme a Trump, comprende Nikki Haley (née Nimarata Randhawa) già Governatore della Carolina del Sud, Vivek Ramaswamy, imprenditore, e Asa Hutchinson, già Governatore dell’Arkansas, vi sarebbero Ron De Santis, Governatore della Florida, Mike Pence ex-Vice Presidente con Trump, Glenn Youngkin, Governatore della Virginia, e Chris Sununu, Governatore del New Hampshire, i quali non hanno ancora sciolto la riserva. A tutti questi si è ora aggiunto Tim Scott, un altro Senatore del Sud, anche lui della Carolina del Sud come Nikki Haley, che ha annunciato la sua decisione di presentarsi alle urne alle primarie del partito.
Nove candidature contro Biden significano anche otto candidature contro Trump, otto politici che ritengono di poter far meglio del Donald nel novembre del prossimo anno, e che implicitamente giudicano quest’ultimo vulnerabile in primo luogo dinanzi ai sostenitori del partito: e già questo sarebbe un fatto degno di nota.
È anche politicamente significativo che tutti i candidati dichiarati o “in pectore” siano del Sud (salvo Sununu, se deciderà di presentarsi); e pure interessante è che ve ne siano già un paio che rappresenterebbero una nuova etnia che si affaccia nella politica americana (dove non è comune, a differenza di quella britannica), cioè quella dei discendenti degli Indiani – s’intende quelli asiatici.
È una novità, che poggia sulla loro crescente presenza nella nazione (negli ultimi vent’anni più che raddoppiati, vicini ormai ai 6 milioni se non oltre) e la loro tradizionale intraprendenza che è sostenuta dalla determinazione ad acquisire una preparazione culturale avanzata. Il 75% ha almeno un diploma universitario e il 43% ha un diploma di post grado, contro rispettivamente il 62% e il 13% della media americana: è evidente che almeno per questa componente della popolazione il “sogno americano” ha funzionato, e si appresta a riscuotere.
Finora, l’attenzione dei politologi americani quando non si fissa su Trump si sposta su Ron De Santis, che per essere a capo di uno Stato importante come la Florida, ma principalmente per essersi illustrato senza riserve come partigiano della fazione più simile a quella di Trump senza emularne gli aspetti più plateali, sta attirando più strali dal Donald nazionale di quanti questi ne riservi a Biden: è una consacrazione.
Ora però l’uscita del Sen. Scott rimescola le carte e apre una nuova pagina a per il Grand Old Party. Scott è un afroamericano che ha avuto successo nel mondo degli affari (assicurazioni) ed è entrato in politica oltre vent’anni fa, dapprima nel suo Stato, poi a livello nazionale dal 2011. È religioso, conservatore, anti-aborto, pro-militare e ha saputo trovare il voto anche oltre i limiti della componente di colore del suo elettorato: dunque le credenziali per il GOP ci sono. È anche un oratore articolato ed efficace: senza un’ombra di timidezza ha affrontato contemporaneamente i fantasmi di Trump e quelli di Obama, presentandosi ufficialmente come candidato alle primarie del partito in vista delle elezioni i del prossimo anno.
Va detto subito che la sua presentazione è stata brillante: dinanzi all’oscuro pessimismo di Trump (“La nazione sta andando a rotoli, ha perso la bussola, non funziona niente, solo io la posso rimettere in sesto”), Scott sostanzialmente ha ribattuto che, al contrario, la nazione non ha mai smesso di essere “la città splendente sulla collina”, la cui luce attira chi la vede e ne fa un partecipe di un successo sempre maggiore. Implicitamente egli accusa Trump di millantato credito, cosa che non è difficile sostenere, e rivendica invece una realtà ottimistica, aperta a chi voglia parteciparvi. Lo slogan “make America great again”, sostiene in sostanza Scott, è falso, perché presume che non lo sia più: e invece, proclama Scott, l’America non ha mai smesso di essere “great”: occorre solo partecipare e aggiungersi a coloro che alimentano il “sogno”.
Quale delle due narrative farà più presa nell’elettorato? Potrà Scott guadagnarsi l’investitura del suo partito, tuttora saldamente nelle mani di Trump e amici? Difficile, ma sono quesiti rispettabili, che si scioglieranno al più tardi quando vedremo le primarie in azione, e apparirà anche chiaro come Trump starà navigando la piramide crescente delle sue vicende giudiziarie. Intanto fin da oggi sembra acquisito che se anche Trump, tuttora il candidato favorito nel GOP, ne manterrà la fiducia dovrà comunque trovarsi un nuovo candidato Vice Presidente, visto come è finita con Pence. Se scegliesse Scott, sarebbe un obiettivo raggiungibile e forse addirittura vincente per i Conservatori, innegabilmente un colpo gobbo contro i Democratici, la cui forza elettorale necessariamente riposa in parti uguali sul voto di colore e su quello femminile. Sostituire Kamala Harris alla vigilia delle elezioni costerebbe caro al partito; mantenerla di fronte a un ticket, diciamo, Trump-Scott, potrebbe non bastare.
Scott è apparso abile e convincente, prorompente di energia, e non ha fatto passi falsi. È un afroamericano del Sud e dopo la sua apparizione sugli schermi televisivi si è in un colpo solo accreditato come un serio contendente sia per la trazione che può esercitare tra i tradizionali seguaci conservatori del partito, soprattutto i moderati tra di loro, sia per l’interdizione che può esercitare sugli altri membri della comunità di colore che oggi sostengono i Democratici, ma che troverebbero difficoltà a negargli il voto per preferire il bianchissimo Biden, a sua volta difeso da una Kamala Harris che stenta a scintillare. La Harris dovrebbe far venire i brividi al suo capo, e invece lodevolmente lo serve e lo appoggia da obbediente Vice; ma non porta farina al mulino del partito.
Per ora, limitiamoci a notare che la ‘performance’ di Scott dinanzi alle telecamere della nazione ha intanto messo in chiaro che un confronto Scott-Harris per conquistare il voto dell’elettorato di colore sarebbe una seria sfida per la Vice Presidente.
Francesco Olivieri è stato un diplomatico italiano che ha lavorato negli Stati Uniti, in Venezuela, a Bruxelles, in Cina, in Italia per il Ministero del Commercio Estero. È stato ambasciatore in Cecoslovacchia (poi ristretta a Cechia) e in Croazia, quindi Consigliere di politica estera del Presidente del Consiglio e per tre anni Sherpa del G8, infine ambasciatore all’OCSE, alla Agenzia Spaziale Europea e alla Agenzia Internazionale per l’Energia. Lasciata la Farnesina, ha lavorato con l’Enel in Italia e poi nuovamente negli USA, dove ha aperto la sede di Washington dell’azienda italiana. Ha scritto le “Lettere da Washington” per Il Commento Politico con il nom de plume Franklin, mosso dall’istintiva simpatia per un grand’uomo che aveva sense of humor, nella sua vita era stato un diplomatico di successo e per di più aveva – come Franklin – l’abitudine di inventare congegni pratici, nel suo rifugio in Pennsylvania.