di Maurizio Troiani
La grande afa piombata in città consigliava giustamente di chiedere asilo politico al freezer di casa, ma non potevamo rinviare l’appuntamento al Comune di Roma per perorare la riapertura dell’Anfiteatro Quercia del Tasso di cui ho ampiamente già parlato su queste pagine.
L’occasione era poi giusta per conversare di teatro con il Maestro Sergio Ammirata, della sua esperienza artistica ormai quasi settantennale, delle mutazioni intervenute nel teatro italiano e soprattutto della sua ultima fatica, Tosca si getta nel Tevere… andiamola a vedere, tratta dalla Tosca di Puccini che a sua volta l’aveva tratta dal dramma di Victorien Sardou per la grande Sarah Bernhardt.
Seconda esperienza di “teatro itinerante” della compagnia La Plautina presso i giardini della Basilica di San Saba. Opera che insieme ad amici avremmo visto in serata.
E così percorrendo la cinquantina di chilometri sulla Cassia e nel centro di Roma che ci dividono da San Saba, trattenendo con non poca fatica l’evaporazione dei pensieri, pensavamo a come avremmo passato questa intera giornata di full immersion teatrale, dedicando pensieri, ricordi e sentimenti a quel magico per noi quartiere.

La magica San Saba
Al quartiere di San Saba ci legano profondi legami d’affetto e memorie di persone che hanno condizionato non poco la nostra vita. Tornarci significa ogni volta alimentare la nostra “nostalgia canaglia” in un turbinìo di ricordi, vissuti o raccontati.
Come quello che, nel dopoguerra, vede ai quattro angoli di piazza Gian Lorenzo Bernini, radunarsi i gruppetti di giovani democristiani, socialisti, comunisti e repubblicani che all’improvviso, mossi da invisibile segnale, si radunano correndo al centro dei giardini per darsele di santa ragione, ma senza una ragione esplicita se non quel senso di appartenenza che all’epoca significava principi e valori non negoziabili.
O l’altro che all’interno della Basilica, proprio in quegli anni del dopoguerra, vedeva gli uomini accomodarsi nella fila di sinistra dei banchi e le donne in quella di destra, con fuggitivi e imbarazzati sguardi che talvolta si traducevano in inscalfibili legami matrimoniali come quelli di una coppia che tanta parte ha avuto nella nostra vita degli ultimi 25 anni.
Altro elemento che ci lega al quartiere San Saba sono le sue origini che risalgono al Sindaco repubblicano Ernesto Nathan ed al suo Assessore all’Urbanistica, Sanjust di Teulada, che con il Piano regolatore del 1909 regalarono a Roma una grande ventata di modernità, progressismo e socialità con una urbanistica e stili architettonici che coniugavano modelli esteri, specie quelli inglesi delle garden town, con il genio italiano dei secoli precedenti.
Così l’ICP-Istituto Case Popolari annoverava tra i suoi architetti, urbanisti e ingegneri (Giovannoni, Quadrio Pirani, Palmerini, eccetera) veri geni che ci hanno poi lasciato quartieri come la Garbatella, Villa Fiorelli, Città Giardino o i complessi della Piccola Londra al Flaminio, di Piazza Tuscolo e Ponte Lungo all’Appio tanto per citarne alcuni, con il relativo trionfo del barocchetto romano, linguaggio architettonico che trae spunto dal Seicento e che trova nel rione Coppedè la sua esaltazione onirica.
Se Testaccio e la Garbatella erano i rioni edificati per gli operai della zona industriale dell’Ostiense, San Saba era riservata alle classi medie impiegatizie, tenendo sempre presente da parte di quell’ICP che la dignità e l’emancipazione dei lavoratori dovevano passare anche attraverso case dignitose.
Il quartiere di San Saba, fatto per lo più di villini bifamiliari a due piani con giardinetto e palazzine di massimo quattro piani, gravita intorno alla sua piazza, Piazza Gian Lorenzo Bernini, con al centro i suoi giardini, il mercatino, l’edicola, i negozietti, i locali, la scuola ma anche la sua splendida Basilica con annesso convento fondata nell’VIII secolo da eremiti provenienti da Gerusalemme, oggi gestita dai gesuiti, dopo essere passata dai benedettini ai cluniacensi e ai cistercensi, con un interno su tre navate le cui colonne sono di diversi stili. L’esterno, con la poderosa abside, fa risaltare la cortina in mattoncini, identici alle villette che fanno da corona alla piazza.
Ancor oggi, a distanza di cento anni dalla fondazione, San Saba come nessun altro quartiere romano, conserva i suoi tratti da paese nella citta, non cedendo nulla alla fragorosa movida giovanile né al turismo mordi e fuggi che ha devastato molti quartieri una volta caratteristici.
Di lato dalla Basilica e a qualche metro dalla piazza, il Teatro Anfitrione già Cinema Rubino rilevato poco meno di quaranta anni or sono dal Maestro Ammirata.
Con in testa i ricordi dei mai dimenticati Prof. Dolci e consorte, del barocchetto romano, di Nathan, dei geni dell’ICP degli anni venti arriviamo a San Saba in attesa di Sergio Ammirata proprio in quel Teatro Anfitrione, oggi diventato uno dei più cari punti di interesse della nostra personale toponomastica del cuore.

Aneddoti e lezioni di teatro
Il nostro anticipo rispetto all’appuntamento con il Consigliere Trombetti e il ritardo dell’incontro, ci danno agio di intavolare con il Maestro Ammirata una lunga teoria di domande che vengono ampiamente soddisfatte con una miriade di aneddoti, vere e proprie lezioni di teatro.
Partiamo dai sotterfugi con i quali i giovani Lando Buzzanca e Sergio Ammirata, inducono i rispettivi genitori a lasciare negli anni cinquanta la natia Palermo per approdare a Roma e frequentare l’Accademia Sharoff insieme ad un certo Carmelo Bene.
E proprio Sharoff che per primo importò in Italia il famoso Metodo Stanislavskij (la completa totale impersonificazione dell’attore con il personaggio) che tanto ha segnato la carriera di grandissimi attori di tutto il mondo, ci da la possibilità di chiedere se tale metodo è possibile anche per gli attori comici e, come immaginavamo, la risposta chiarisce che a quest’ultimi richiede un ulteriore impegno.
A torto si ritiene infatti che all’attore tragico, trattando temi alti, si richieda una maggior preparazione tecnica, culturale e professionale, mentre all’attore comico, trattando temi bassi e con l’unico scopo di far ridere gli spettatori, si richieda una corrispettiva più bassa preparazione, cultura e professionalità. Nulla di più sbagliato.
Esistono attori tragici che fanno ridere e attori comici che fanno riflettere… per la loro scarsa capacità di interpretare ruoli e personaggi. Ed anzi è molto più difficile far ridere.
Se poi al mestiere di attore si aggiunge quello di regista e a questi due anche il mestiere di autore teso soprattutto a rivisitare in chiave umoristica i testi storici della commedia ed anche del dramma, allora si raggiunge il massimo livello d’esperienza teatrale.
Da ciò la domanda sul perché della scelta di Sante Stern come pseudonimo di autore e ci rivela che tutto è nato durante una degenza per un intervento allo sterno quando seguendo le indicazioni del suo amico Fernando Di Leo, con il quale ha messo in scena varie opere al cinema e a teatro, cominciò ad applicare regole rigide alla sua creatività nello scrivere testi e copioni.
Inevitabili le riflessioni sulle differenze fra il teatro dei decenni passati e quello attuale dove non mancano autori, registi e attori di valore, mentre è assente una vera e propria politica di incentivazione ed educazione al teatro per gli spettatori.
Politica che non significa solo assenza o scarsità di contributi pubblici, con le grandi istituzioni teatrali degli stabili e le grandi compagnie cui vanno milioni di euro all’anno e le piccole compagnie prive di ogni contributo che vanno avanti a costo di enormi sacrifici.
La cultura del teatro andrebbe invece insegnata nelle scuole e non lasciata alla buona volontà di sporadici insegnanti e mentre la vituperata televisione pedagogica degli anni cinquanta e sessanta oltre ad uniformare il linguaggio nazionale metteva a disposizione ogni settimana, di norma il venerdì, grandi produzioni di autori classici e moderni con interpretazioni di grandissimi attori, oggi la televisione ha completamente abbandonato ogni velleità culturale, non solo per il teatro.
A Roma poi, tanto per rimanere nel teatro comico delle stagioni estive, trovavamo nel passato le piccole compagnie di Checco Durante ai giardini di via Nazionale e di Fiorenzo Fiorentini al Giardino degli Aranci, per non parlare delle cinquanta stagioni alla Quercia del Tasso de La Plautina: esperienze di grandi successi di pubblico e critica.
Oggi le piccole compagnie del teatro comico estivo – e non solo – vanno faticosamente avanti con indicibili sacrifici e solo per il grande, sconfinato amore per il teatro, con un insostituibile ruolo di grande formazione artistica per le giovani generazioni di attori.
Se le competenti istituzioni nazionali e locali conoscessero nel dettaglio queste realtà artistiche avremmo sicuramente una più adeguata politica di incentivazione ed educazione al teatro con indubbi riflessi positivi sull’intero movimento.

Il teatro itinerante e la Tosca
Dopo il positivo incontro con il Consigliere Yuri Trombetti che ci ha aperto il cuore alla speranza di una sollecita azione del Comune di Roma per restaurare e rendere nuovamente agibile l’Anfiteatro Quercia del Tasso – durante il quale il Consigliere ci ha detto di aver scoperto proprio a San Saba una targa di una “sotto-sezione PRI” e Sergio Ammirata ha ricordato l’amico repubblicano Ludovico Gatto che ereditò negli anni ottanta come Assessore alla Cultura l’effimero di successo di Renato Nicolini per tradurlo in strutture stabili – nel riprendere la via verso San Saba cominciamo a parlare di teatro itinerante.
Veniamo così a saper che La Plautina è la seconda volta che sperimenta questa modalità dopo quella dello scorso anno.
Il teatro itinerante nasce in Inghilterra e viene importato in Italia da Luca Ronconi in una originalissima versione che considerava lo spazio scenico, non solo come un contenitore scenografico, ma come parte integrante e vivente della creazione drammaturgica dello spettacolo e, quindi, con una interazione oggettiva con il pubblico.
Lo scorso anno avevamo assistito, sempre ai giardini della Basilica di San Saba, al godibilissimo spettacolo di “Fatti, fattacci ed altri avanzi di galera” con le varie scene in cui si articolava lo spettacolo in diversi angoli dei giardini della Basilica in un ritmo serrato, con gli spettatori che ad ogni scena si trasferivano con le rispettive sedie nei vari punti, alcune volte non proprio vicinissimi.
Ci aspettava adesso la Tosca rivisitata in chiave ironica ed eravamo molto curiosi di vederne la messa in scena… anzi le varie “messe in scene” di questo teatro itinerante che altro non è che teatro nel teatro.

Dopo un doveroso prologo in cui le due voci narranti ed insieme suggeritrici che impersonano due ladre di… trame e di intrecci teatrali spiegano situazioni e ruoli, irrompono sulla scena i vari personaggi e pian piano il tutto prende un ritmo sempre più serrato con i classici personaggi della classica Tosca stravolti nel ruolo comico.
Riconosciamo attori che hanno fatto la storia de La Plautina (Enrico Pozzi, Vittorio Aparo ed un Amedeo D’Amico che interpreta un patriota repubblicano della Roma Papalina con la voce e l’inflessione di Gianni Agnelli, spettacolo nello spettacolo) senza dimenticare gli altri a cominciare da Paolo Bonanni nei panni di un convincente Cavaradossi, ma anche new entry come la Maria Caterina Andreozzi nella parte di Tosca davvero brava, non a caso lodata da Sergio Ammirata a conclusione della performance nel consueto dialogo con il pubblico.
E se la prima parte si gioca in una unica location, nella seconda gli spettatori devono approssimarsi con le proprie sedie nei due altri angoli in cui vengono recitate le restanti scene con le due “ladrone” che gironzolano tra gli spettatori e tutti gli attori che compiono un encomiabile sforzo fisico ed interpretativo a causa del caldo, alle prese con un copione che destruttura completamente Sardou e Puccini, introducendo gag che sono veri e propri virtuosismi teatrali. Meritatissimi gli applausi finali.
Una giornata totalmente dedicata a prendere lezioni, teoriche e pratiche, di amore per il teatro che ci riconsola non poco del contesto poco edificante in cui siamo costretti a vivere questo nostro tempo.
Ci consolano non poco anche le considerazioni del Maestro Ammirata sulla crisi del teatro, una crisi nata già nel teatro classico dell’antica Grecia e mai davvero superata nei secoli seguenti, una crisi però che non prenderà mai il sopravvento sul teatro perché – come ben riporta la brochure della “Tosca che si getta nel Tevere…” – “tutto il mondo è teatro, il teatro è vita e la vita è una finzione della realtà e la realtà della vita è solo una faccia tosta della finzione”.
Il teatro, cioè, è immortale.
