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Leggere Pasolini a 50 anni dalla scomparsa delle lucciole

Il colonnino era sulla destra della prima pagina. Si apriva con un occhiello (una sorta di titolino introduttivo) che era assai più importante di quanto le dimensioni inducessero a pensare: “TRIBUNA APERTA”. Come a dire: tutti possono intervenire, non si tratta per forza della linea del giornale. Preoccupazione ai tempi legittima, visti i tempi e soprattutto considerato il giornale: siamo nel 1975 e sul Corriere della Sera. Montanelli se n’era andato l’anno prima in polemica con quella che riteneva essere una decisa sterzata a sinistra che il quotidiano aveva intrapreso con la direzione di Piero Ottone. Ma un pezzo di Pasolini è pur sempre un pezzo di Pasolini. Va maneggiato con cura. Il titolo non passerà alla storia: “Il vuoto di potere in Italia”. Quel titolo no, ma l’articolo sì e con un altro titolo, l’ “Articolo delle lucciole”, con cui venne ripubblicato in “Scritti Corsari”. I lettori se lo trovarono di fronte il 1° febbraio, cinquant’anni e poche settimane fa.

Sotto il titolo, un neretto. Che recitava: “Pier Paolo Pasolini ci ha inviato questo articolo su quelli che egli definisce “regime democristiano”. Ad esso replicherà domani Giulio Andreotti con un altro articolo”. Una sorta di bugiardino farmaceutico applicato alla letteratura e al dibattito politico che si potrebbe interpretare così: la lettura di questo articolo potrebbe provocare dei mal di pancia, domani vi forniremo l’antidoto. Nel resto della prima pagina ci sono Fanfani che voleva proseguire la linea di Governo del quadripartito, l’annuncio che Londra avrebbe spalleggiato Washington nella trattativa “con gli sceicchi” per scongiurare la crisi petrolifera (siamo nell’anno dell’austerity, con le domeniche a piedi che sarebbero diventate testata d’angolo di un’intera memoria generazionale), il caos nel processo di Catanzaro su Piazza Fontana e il dibattito sui sequestri di persona: per il presidente del Verona calcio, Saverio Garonzi, l’Anonima ha chiesto un miliardo e mezzo di riscatto, per Peppino Agrati, industriale brianzolo, tra i sette e i dieci miliardi. E intanto è ancora in stato di choc Pietro Garis, il piccolo torinese appena liberato, il più giovane che fosse mai stato oggetto di rapimento.

Pasolini non sapeva, o forse sì essendo un poeta, che non stava scrivendo per i contemporanei o perlomeno non solo per loro. Ma per quelli che sarebbero venuti dopo di lui, molto dopo. Cinquant’anni dopo, cioè noi. Provare per credere.

Intanto Pasolini sceglie, per la sua agghiacciante (riletta oggi) analisi, una chiave ambientalista: la scomparsa delle lucciole, per l’appunto. Il che rende le sue parole perfettamente inserite nel mood comunicativo contemporaneo. Sostiene, il poeta, che il regime democristiano del dopoguerra era la diretta discendenza, negli uomini e nelle pratiche, del regime fascista. Ma poi, nei primi anni ’60, è successo qualcosa: “A causa dell’inquinamento dell’aria e soprattutto in campagna di quello dell’acqua sono cominciate a sparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più: sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato”. Secondo Pasolini la storia d’Italia di quegli anni è strutturabile in tre fasi: prima della scomparsa delle lucciole, durante e dopo.

Un lettore frettoloso potrebbe non cogliere il valore simbolico e soprattutto il nesso fra questo escamotage storico-letterario e il titolo: “Il vuoto di potere in Italia”. Ma in realtà è molto più facile di quanto appaia. La lucciola è per sua natura una timida luce nel buio, soprattutto nel buio di certe campagne cui l’invasione aliena della luce artificiale ancora concedeva e concede di essere qualcosa di smile ad una vera oscurità naturale, in cui i suoni della terra e di coloro che la abitano riguadagnano lo spazio perduto. La lucciola è la speranza che illumina quel buio. Senza lucciole muore la speranza. E politicamente il buio diventa vuoto.

Pasolini sostiene che dopo la scomparsa delle lucciole “i valori “nazionalizzati” e quindi falsificati (Chiesa, Patria, famiglia, ordine, obbedienza, risparmio, moralità) non contano più. Essi sopravvivono (attenzione! ndr) nel clerico-fascismo emarginato, anche il Msi in sostanza li ripudia”. Impossibile non vedere in questo disegno il ritratto dell’“homo novus” (si fa per dire) in carica nei governi delle nuove destre, non solo in Europa. Ma soprattutto: quel coacervo di valori sopravviveva (visto che perfino Almirante se ne faceva sostanzialmente un baffo) in una destra estrema che, noi oggi lo sappiamo bene, ha attraversato i tempi, ha vestito panni nuovi, ed è uscita allo scoperto, sugli stessi presupposti di allora, ma diventando egemone.

Come è stato possibile? Pasolini lo sapeva anche se non poteva prevedere (o forse sì, di nuovo) come il suo sguardo si sarebbe proiettato nel futuro. Dopo la scomparsa delle lucciole (e quindi della speranza) “gli italiani sono diventati, specie nel centro sud, un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta uscire in strada per capirlo”.  Peggio che durante il Ventennio, denuncia Pasolini, perché quei comportamenti nulla avevano in comune con la coscienza, era come se tutti avessero indossato maschere che poi hanno prontamente tolto. Ora, sostiene PPP, è peggio perché il “potere dei consumi” ha portato gli italiani ad una “irreversibile degradazione”. Ognuno può in questo caso permettere alle proprie sinapsi di trovare gli esempi migliori: dall’ignoranza assurta a valore, alla semplice cafonaggine e alla rinuncia al desiderio di comprendere davvero ciò che accade preferendo la comune vulgata diffusa in poche e spesso sgrammaticate parole su qualsivoglia social media.

Ma se là dove dovrebbe esserci il potere vero c’è invece il buio perché le lucciole sono scomparse, allora chi muove le fila dei paesi e del mondo? Le nostre fila? Questo è il punto del discorso pasoliniano. I politici democristiani di allora si rivelavano null’altro che maschere più o meno consce di essere ormai delle figure prive di anime, non si rendevano conto che quel potere che loro gestivano si stava invece organizzando per allestire degli “eserciti transnazionali” che si rivelavano qualcosa di simile a “polizie tecnocratiche”. Difficile, nel 1975, immaginare con tanta efficacia gli architravi di un futuro che poi sarebbe diventato il presente che stiamo vivendo. E non tanto per gli eserciti transnazionali di cui oggi si discute animatamente, ma per le “polizie tecnocratiche” che nulla hanno in comune con la vigilanza (peraltro repentinamente cancellata dai tycoon dell’editoria digitale all’indomani dell’elezione di Trump) sui contenuti dei social; e per la capacità digitale – mai chiara, avvolta nel fumus di una sordida incertezza – di penetrare, senza ostacoli, nel privato di ciascuno, di condizionarlo, di disporne per scopi di cui il cittadino poco conosce, se non nulla. PPP, non solo in questo caso, sapeva ma non aveva le prove; aveva identificato gli elementi che avrebbero composto il futuro, la potenza della negazione della verità rimpiazzata da una maschera, il progressivo sostituirsi di un “potere” riconoscibile con uno dai connotati sfumati e assai più pericoloso. Sentite questo passaggio: “I potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient’altro che il luttuoso doppiopetto”.

Nel 1975 il tema era quello di un colpo di Stato che, come la melma cattiva delle fogne di New York in “Ghostbusters”, si annidava nel sottosuolo italiano minacciando di emergere da un momento all’altro. Oggi è il progressivo svuotamento della democrazia soprattutto nelle menti e nei cuori delle persone, un’operazione che il buio causato dalla scomparsa delle lucciole rende pericolosissima e letale per la vita di tutti. Pasolini socraticamente sapeva di non sapere; ma intuiva. E con la forza del poeta identificava quelle mosse che sempre eguali a sé stesse tessono una trama nascosta.

Quest’anno saranno celebrati i 50 anni dalla morte di Pasolini. Pochi mesi prima, a chiusura dell’articolo delle lucciole, scriveva: “Di tale potere reale noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l’hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola”. Ora, per qualche strana scelta dell’anima del mondo o banalmente perché certi diserbanti non sono più in produzione, in alcuni luoghi le lucciole sono tornate. PPP se ne rallegrerebbe perché vedrebbe in questo evento uno squarcio nel buio, la speranza di una resurrezione della luce originaria. E cinquant’anni dopo quell’articolo, abbiamo bisogno di quella luce. Soprattutto, prima di tutto.


Piero Valesio è nato a Torino. Giornalista dal 1985 ha seguito Olimpiadi e grandi eventi sportivi per il quotidiano Tuttosport. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e curato la comunicazione degli Internazionali di tennis di Roma. Ha firmato rubriche per Sport Mediaset e scritto per Il Messaggero. Attualmente scrive del rapporto fra sport, serialità e tecnologia sul sito specializzato Sport In Media, di attualità tennistica su Ok tennis, di sport fra società e cultura sul quotidiano Domani.

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