L’episodio dei droni russi penetrati nello spazio aereo polacco ha scatenato un’ondata di polemiche e di giustificazioni improbabili. I commentatori filo-putiniani hanno subito cercato di minimizzare: chi evocava vecchi casi, come il GPS della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, chi richiamava il sabotaggio al gasdotto del Baltico, chi ancora – parlando di ‘propaganda insopportabile’ – sembrava insinuare che i droni non fossero droni, o non fossero russi, o non fossero armati, o non fossero mai entrati in Polonia, o che fossero entrati “per errore”. Ma la realtà è testarda: quei velivoli, russi e armati, erano 19, lenti, guidati da operatori, e hanno percorso centinaia di chilometri nello spazio aereo di un Paese NATO. A questo punto, la domanda cruciale è: perché il Cremlino ha autorizzato una mossa tanto rischiosa e apparentemente priva di senso?
La Russia in difficoltà
Per capire le ragioni occorre guardare al cuore del problema: la guerra in Ucraina. La propaganda russa diffusa in Occidente racconta un’armata invincibile, sempre in avanzata. La verità, tuttavia, è l’opposto. I progressi territoriali di Mosca negli ultimi dodici mesi sono stati minimi e pagati a un prezzo altissimo in uomini e mezzi.
Le sanzioni internazionali hanno fiaccato l’economia. Le banche russe sopravvivono soltanto grazie alla liquidità pompata dalla Banca centrale, le fabbriche soffrono la carenza di manodopera, al punto da importare 30.000 lavoratori nordcoreani in condizioni di semi-schiavitù. Le casse pubbliche sono in rosso, il deficit cresce.
Come ha scritto un blogger russo, “non è che tutto stia filando liscio”: città in coda per ore alla ricerca di carburante, proteste spontanee in varie regioni, reduci disillusi che alimentano la criminalità, stipendi militari pagati in ritardo, carceri ormai svuotate che non forniscono più nuove reclute.
Le “sanzioni ucraine”: il carburante che manca
A questa situazione già fragile si è aggiunto un nuovo fattore devastante. Gli attacchi ucraini sistematici alle raffinerie russe hanno lasciato il Paese a secco di benzina, creando file interminabili ai distributori e paralizzando la logistica interna.
L’ultimo colpo, di portata strategica, ha riguardato il terminal petrolifero di Primorsk, vicino a San Pietroburgo, da cui ogni anno passano 60 milioni di tonnellate di greggio per un valore di circa 15 miliardi di dollari. Considerato che lo sforzo bellico russo costa almeno 25 miliardi l’anno, il danno è colossale. L’attacco era prevedibile ma evidentemente i russi non riescono a difendere gli impianti.
Come se non bastasse, il prezzo del petrolio sui mercati internazionali continua a calare, privando Mosca di risorse vitali.
L’ossessione nucleare
In questa cornice di difficoltà economiche e militari si capisce la logica delle provocazioni. Vladimir Putin sa che la sua stessa sopravvivenza politica, e forse fisica, è a rischio se l’avventura ucraina finirà in una disfatta. È all’angolo, e quando un leader autocratico si sente messo alle strette, tende a giocare carte sempre più rischiose.
Da anni, il presidente russo coltiva un’ossessione per le armi nucleari, viste come l’asset supremo della Russia. Non intende usarle in Ucraina, perché le conseguenze sarebbero devastanti: isolamento totale, risposta militare occidentale, territorio conquistato reso invivibile. Ma vuole che il mondo ne percepisca il peso politico.
La sua strategia, calcolata con freddezza, punta a un obiettivo preciso: creare una situazione di altissimo rischio nucleare senza arrivare all’impiego reale delle testate. Un conflitto limitato con la NATO – magari qualche scambio di missili convenzionali, colpi di artiglieria, provocazioni nei cieli – sarebbe sufficiente a far salire il panico nelle opinioni pubbliche occidentali e a moltiplicare gli sforzi diplomatici per chiudere la guerra alle sue condizioni.
Una strada disperata
È una strategia disperata, pericolosissima Di fronte alla quale non mancheranno voci che, in buona fede, invocano “pace a ogni costo” o temono l’escalation. Ma accettare le condizioni poste dal Cremlino – la sottomissione dell’Ucraina, la legittimazione delle conquiste territoriali – equivarrebbe a consegnare ai fascisti di tutto il mondo un messaggio chiaro: l’aggressione paga.
L’unica via: resistere
Al contrario, la strada da seguire è duplice: non cedere alle provocazioni, ma nemmeno arretrare sul sostegno all’Ucraina. Significa evitare risposte affrettate – come inviare truppe in territorio ucraino o proclamare no-fly zone improvvisate – che darebbero a Putin il pretesto per alzare la posta. Ma significa anche non aprire scorciatoie diplomatiche che regalerebbero al Cremlino ciò che non riesce a ottenere sul campo.
Putin e il nazionalismo imperiale russo devono essere sconfitti. Significa ritiro, ripristino dei confini legittimi, fine dell’aggressione. Solo così la Russia potrà, un giorno, guarire dal virus del suo imperialismo.
E la “faccia” di Putin? I pacifisti diranno che bisogna salvarla noi. In realtà, ha mille modi per farlo senza ottenere sottomissioni dall’Ucraina: può convocare conferenze di pace, sbandierare accordi sugli armamenti, inventare gesti unilaterali. Le uscite di scena simboliche non mancano.
La lucidità di Mattarella
In questo quadro cupo, un punto fermo arriva dall’Italia. Il presidente Sergio Mattarella, in tre anni di guerra, si è distinto per lucidità: ha sempre ricordato che il sostegno all’Ucraina non è un capriccio, ma un interesse nazionale, perché il diritto internazionale è il fondamento del nostro stesso benessere. Se crolla la regola che vieta le aggressioni e tutela i confini, nessun popolo può dirsi davvero al sicuro.
Qualche giorno fa Mattarella ha avvertito che “siamo sull’orlo del baratro”. Non era un invito al panico, ma un richiamo alla lucidità: l’unico modo per sottrarsi al ricatto nucleare e alle provocazioni del Cremlino è non cedere. La pace non si costruisce piegandosi alla prepotenza, ma difendendo con fermezza il diritto violato.
Pier Giorgio Gawronski è economista e pubblicista. Dopo la laurea in Economia e Commercio, ha studiato Relazioni Internazionali ed Economia a Ginevra e Macroeconomia Internazionale a Oxford. Ha lavorato all’ufficio studi della BNL, all’OCSE, all’UNCTAD, alla Presidenza del Consiglio. È stato attivista e consulente di diverse Ong in Italia e all’estero (Amnesty International, Observatoire de la Finance). Ha pubblicato articoli scientifici in riviste internazionali su argomenti macroeconomici e sulla povertà globale.