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Europa e Groenlandia, da occasione persa a nuovo incontro

(Bruxelles) – Nel 1982 in pochi prestarono attenzione a una delle più singolari statistiche non solo della (allora) Comunità europea, ma dell’intera storia delle relazioni internazionali: la CEE perse d’un colpo la bellezza dei due terzi del proprio territorio e circa lo 0,01 della sua popolazione. Solo la Groenlandia poteva presentare un conto così.

La decisione fu affidata ad appena 24.000 elettori e il referendum per uscire dall’Europa, dove era entrata con l’adesione della Danimarca nel 1973, fu combattuto: 53% a 47%.

Quasi nessuno ci fece caso. In quegli anni ancora non si poteva capire l’importanza delle terre rare, dello scioglimento dei ghiacci e dell’Artico, che invece è ormai, col Mediterraneo e l’Indo-Pacifico, uno dei fronti più ambiti e strategici per le grandi potenze mondiali, Europa compresa. In quegli anni nemmeno si dette troppa importanza al ruolo dei territori europei d’oltremare, retaggi di un imperialismo tramontato ma con eredità apparentemente trascurabili e invece sempre più preziose, soprattutto per quelli portati in dote da Spagna (le enclave nella costa marocchina, le Canarie), Francia (una diffusa presenza nel Pacifico, le isole antartiche, la Riunione, i Caraibi, la Guyana diventata base dei lanci spaziali dell’ESA), Paesi Bassi (le Antille olandesi). A rigore di geografia, anche le Azzorre, Madeira e perfino Lampedusa sono territori extra-europei che allungano il passo dell’UE nel mondo.

Dotata di un’autonomia di manica larga, di fatto semi-indipendente, la Groenlandia non è facilmente spendibile per gli interessi europei. Trump l’ha sempre considerata un tesoro abbandonato che solo gli Stati Uniti saprebbero valorizzare, come una nuova frontiera americana e una piattaforma ideale per mettere al sicuro buona parte dell’Artico sempre più conteso.

Se cinque anni fa la sua idea di vendita obbligatoria da parte della Danimarca venne derisa come una stravaganza, oggi dovremmo essere più cauti nel misurare le parole del nuovo presidente americano. Negli ultimi anni abbiamo visto cose che nessuno si aspettava. Nel 2025 abbiamo capito che anche l’improbabile, se non l’inimmaginabile, è possibile.

Trump appartiene a quella schiatta di politici a cui piace imporre colpi di timone avventati e che possono risolversi nel nulla – come il suo piano per la pace in Palestina – ma che, come Erdogan o Putin, conoscono il ritmo della provocazione e di un decisionismo fuori dalle strade maestre da non sottovalutare. Al di là delle armi, che non ha escluso, ha a disposizione altri strumenti, commerciali e di difesa collettiva, più facilmente utilizzabili e con i quali può fare male anche ai migliori alleati.

La Danimarca finora appare abbastanza smarrita nella sua reazione, come lo è stato il primo ministro di Nuuk che può parlare a nome di poche migliaia di cittadini dell’isola, e non è certo ingrandendo il simbolo groenlandese nello stemma reale che si può cominciare a organizzare una risposta. Quanto all’UE, al di là di qualche dichiarazione, non può fare quasi niente per proteggere un territorio che non gli appartiene.

Il quadro cambierebbe con un ritorno della Groenlandia in seno all’Unione europea. Lo ha proposto il vice-presidente del Partito Popolare Europeo, dovrebbe diventare una priorità tanto per Nuuk e Copenaghen quanto per Bruxelles. Seppure lontani nel tempo, i risultati del referendum del 1982 indicano che il cuore della metà dei groenlandesi stava bene in quella che era un’Europa più sbiadita e in un mondo più sicuro. Varrebbe la pena ripetere la riflessione.

Con il rientro della grande isola, l’UE tornerebbe ad una fase espansiva più semplice dell’allargamento ai Balcani occidentali, dato che la Groenlandia appartiene a un paese membro, dimostrerebbe che le acquisizioni territoriali non si fanno per guerra e per OPA ostili, ma per scelta dei popoli, e si creerebbero le migliori premesse per fare dell’Europa una vera potenza artica, con investimenti nella ricerca e in basi navali. Perché la logica di Trump ha ragione su un punto: l’attuale status, ibrido e di basso profilo, della Groenlandia appare uno “spreco”, è di poca sicurezza per i groenlandesi e di poca utilità per la Danimarca e per il resto d’Europa e, in quanto occasione mancata, rappresenta un favore a Cina e Russia.


Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.

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