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Guerra, eserciti e miseri stracci in una mostra al Museo Storico Nazionale di Kiev

Chiara Compostella, restauratrice e storica dell’arte, lavora a Kiev come esperta per progetti di cooperazione nel settore cultura.

(Kiev) – È un posto davvero speciale quello dove sorge il Museo Storico Nazionale dell’Ucraina[1]: un ampio spiazzo in cima a una collina, stretta su un fianco ripido dal Dnipr, a vigilare la sterminata pianura che – traboccante di grano, girasoli e colza – si srotola a sud fin dentro al Mar Nero.

Il museo condivide questo spazio con i resti della Chiesa delle Decime, la prima chiesa in pietra di Kyiv e di tutta la Rus’[2] che, costruita alla fine del X secolo, fu l’ultimo edificio della città a crollare sotto l’assalto mongolo del nipote di Gengis Khan, nel 1240. Oggi per immaginarsi la gloria di questa grande chiesa bisogna usare un po’ di fantasia perché, delle tante forme che questa chiesa ha assunto nelle sue varie ricostruzioni, dopo la meticolosa demolizione sovietica non rimane che la traccia bidimensionale della sua pianta, stesa sul prato in pietre chiare come un telo ad asciugare.

Poco più in là, appena nascosta da un boschetto di tigli, si trova la chiesa di Sant’Andrea le cui cupole sbocciano fiabesche come bulbi di tulipani giganti dove la rugiada si condensa in sfere dorate, allineate in magico ordine. A contrasto con tanta spumeggiante e colorata bellezza, l’edificio del Museo Storico chiude lo spiazzo sul lato nord con il suo nitore un po’ nordico, di un sobrio grigio chiaro.

Ammetto di nutrire una grande passione per i musei di storia nazionale. Mi piace vedere cosa viene salvato dal naufragio dei secoli, cosa viene considerato utile nella costruzione di quel soggetto ambiguo e mutevole che è l’identità di una nazione. Una cosa piuttosto che un’altra, un racconto piuttosto che un altro.

Al museo in questo momento ci sono tre esposizioni temporanee, il cui tema non stupisce in un Paese in guerra. Una, Our rights are protected by sabers, è dedicata all’evoluzione delle armi nel corso dei secoli; l’altra agli eventi legati all’assedio dell’acciaieria Azovstal a Mariupol. Ospitata nella fresca penombra dell’atrio del museo, si trova invece la piccola mostra Invasion, Kyiv shot sui territori liberati nella zona a nord della città. Fin qui, all’inizio dell’invasione nel febbraio 2022, l’esercito russo si era spinto nel tentativo di prendere la capitale. Il 2 aprile i militari erano stati costretti dall’esercito ucraino alla ritirata, rifugiandosi in Bielorussia e lasciando dietro di sé, insieme a città distrutte e centinaia di morti, gli oggetti personali, le note e i documenti che costituiscono l’oggetto di questa mostra.

Quello che si squaderna davanti è un racconto di ininterrotta violenza: ammucchiati ai lati del percorso espositivo, come nel disordine dettato dalla fretta della ritirata, si sovrappongono e confondono lamiere contorte e resti di cingolato fusi dal calore delle esplosioni, cartelli bersagliati dalle pallottole, parti di mezzi militari con la lettera V, la lettera usata dai russi per identificare i propri mezzi sul fronte settentrionale[3].

C’è quel che resta dei soldati: scarponi sporchi abitati da piedi fantasma, elmetti bruciati e le maglie a righe dell’esercito russo, il cui azzurro si ostina a rimanere squillante. Non viene voglia di sapere se si tratta di cose abbandonate da vivi o da morti. In ogni caso c’è molto della vita dei soldati russi che traspare in questa mostra. C’è un calendario dove si indovina la fatica dei giorni nelle X giornaliere a cancellare le date, fino a un giorno cerchiato – la fine del turno – a cui le croci però non arrivano. Ci sono i certificati di vaccinazione dei soldati, come la vaccinazione Sputnik contro il COVID-19 che, come viene fatto notare con la consueta ironia ucraina nella legenda, viene ripetuta quattro volte per i soldati perché i medici russi sono consapevoli della sua scarsa efficacia.

C’è un quaderno dove il piano delle operazioni militari è disegnato con grandissima cura, come un compito consegnato in bella, mentre lo smarrimento della guerra si percepisce nel povero mondo fatto di molte sigarette e ancora più alcool, i cui pacchetti e bottiglie vuote riempiono le stanze abbandonate nella fuga. C’è uno schema in cui si spiega ai militari russi come sostituire nelle conversazioni con i locali la parola «ucciso» con un cinico «problema risolto», così come è incredibile l’eufemismo «missione umanitaria» suggerito al posto della parola «guerra». Ci sono improvvisate bandiere bianche, fatte di borse della spesa e miseri stracci che contrastano con le bandiere del gruppo ceceno paramilitare Kadyrov, il cui verde lucido brilla sotto i faretti dell’esposizione.

C’è poi una piccola vetrina dove si trovano, sparpagliate, delle foto di ragazze, evidentemente care ai militari russi e dimenticate, o perse, nella fuga. È così che emerge – alla fine della mostra – un residuo di vita normale, penoso e triste, nella sua commovente banalità in mezzo allo sfacelo della guerra.

Le fotografie sono di Chiara Compostella


[1] Ringrazio Nataliya Lihitskaya per avermi fatto conoscere l’anima del Museo, dove lavora con passione.

[2] Federazione politica medievale comprendente l’odierna Ucraina, la Bielorussia e parte della Russia.

[3] La lettera Z è invece usata sul fronte orientale.

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