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Il futuro delle democrazie in affanno. Il caso francese

di Giovanni Caracciolo

PARIGI – Giorno dopo giorno, assistiamo, impotenti ed allibiti, a nuove devastazioni inflitte al pianeta che ci ospita, ma anche al nostro consolidato modo di vivere ed a quella ordinata evoluzione delle nostre società cui eravamo ormai adusi, quanto meno nel Vecchio Continente, dal prevalere della pace e del progresso economico-sociale.

Alle immani catastrofi naturali, si aggiungono quelle cui continua a concorrere la sorda e cieca negligenza ambientale dell’uomo e il ritorno, con la logica del brutale predominio dei rapporti di forza, alle distruzioni di guerre fratricide in terra europea  ed al velleitario ricorso a tentazioni illiberali di dominio e di prevaricazione.

Sino al punto di doverci chiedere, con sempre maggiore frequenza e con crescente angoscia, se riusciremo a far sopravvivere almeno una parvenza di ordine mondiale e a non regredire dai traguardi, faticosamente conquistati e sin qui gelosamente difesi, della democrazia rappresentativa in tutte le sue diverse declinazioni:  parafrasando Churchill, il sistema politico meno imperfetto fra tutti quelli sperimentati sinora.

Ne risente persino la capacità delle classi politiche, ma anche degli analisti ed opinionisti (sempre innumerevoli e sempre più frastornati) a configurare, anche a breve, scenari prevedibili e previsioni attendibili, nel procelloso cumularsi di menzogne dichiarate a gran voce o surrettiziamente propagate da reticoli occulti per mezzo del progresso tecnologico, assieme ad una sempre più proditoria ed impudente rilettura strumentale della Storia, che si aggiusta di volta in volta ai propri tornaconti smarrendo l’insegnamento della ciceroniana magistra vitae.

È davvero venuto il momento – pena conseguenze drammatiche – di ritrovare la bussola e con essa la direzione che i nostri Paesi dovranno prefiggersi per gli anni a venire, senza cadere nella tentazione di ritornare a schemi ripetitivi che hanno fatto il loro tempo e configurando progetti che si ispirino ad una autentica visione anticipatrice. Una visione capace di ricondurre, se ancora è possibile, le pubbliche opinioni a ritrovare fiducia nella politica e nella insostituibile partecipazione dei cittadini – auspicabilmente con larghe maggioranze –  alla formazione delle decisioni e delle strategie delle società democratiche.

La situazione politica interna della Francia è forse quella che meglio raffigura la complessità della fase di affanno, sistemico e contingente, che attraversano le democrazie liberali dell’Occidente e dell’Europa in particolare.

Il Paese dei Lumi conosce un travaglio senza precedenti sul fronte istituzionale, con la prima, autentica crisi “esistenziale”  di un sistema semipresidenziale direttamente dipendente dalla Costituzione golliana del 1958 (e suoi successivi rimaneggiamenti); ad esso si aggiunge, nella tradizione contestataria e “di rottura” della società francese, fin dalla Rivoluzione, un diffuso e crescente malessere sociale, da ultimo innescato – ben al di là della sua essenza e portata – dalla riforma del sistema pensionistico (meglio sarebbe definirla in realtà come un modesto ritocco del regime esistente, per un importo finanziario comprensivo di miglioramenti di carattere sociale e del necessario riequilibrio del deficit previsto non superiore in totale ai 20 miliardi) che minaccia, anche in virtù di un insperato ricompattamento del frammentato tessuto sindacale, il blocco produttivo del Paese per le prossime settimane. A sua volta, il Parlamento di fronte al quale (in assenza di ogni maggioranza praticabile sia per l’esecutivo che per l’opposizione) si discute del disegno di legge previdenziale, è ormai teatro di paralizzanti scambi di invettive e di insulti che lasciano presagire un parto della riforma con il ricorso irrinunciabile al contestato forcipe dell’ordinanza, previsto come ruota di scorta dell’esecutivo dal dettato costituzionale. Concepito e voluto da De Gaulle, in nome della governabilità nell’ipotesi di inconcludenti risultanze del dibattito all’Assemblea Nazionale, stavolta rigorosamente contingentato nei tempi per la scelta adottata dal governo di presentarla come disegno di legge di rettifica del bilancio previdenziale. Con le immaginabili ripercussioni ulteriori sul già incandescente clima della protesta sindacale e di piazza.

Noncuranti del pur martellante richiamo all’argomento dell’imprescindibile esigenza di un prolungamento  degli anni lavorativi a fronte della mutata situazione demografica, intervenuto quasi ovunque in Europa (ed in primis nel venerato ed iconico modello tedesco), milioni di francesi sfilano per le vie delle città, incluse quelle di provincia, fantasticando di un El Dorado dell’età pensionabile ben al di là di un possibile riscontro nella situazione economica reale.

Una visione alimentata con tenacia e con forzatura di argomenti dalle opposizioni populiste, ingigantite dai media e dai social networks, a fronte della quale si staglia l’adamantina determinazione del governo a condurre in porto la riforma, malgrado la gragnuola di vituperazioni tanto in strada che al Palais Bourbon e la diffusa, crescente esecrazione della presunta  disumanità di un Presidente che non ascolterebbe se non i ricchi e i più privilegiati.

Tutti gli ingredienti per un pericoloso redde rationem sembrano ormai riuniti in un confronto muscolare che continua ad ostacolare  ogni tentativo di compromesso, in particolare in sede parlamentare, e nel quale – almeno sinora – le posizioni dei contendenti sono andate cristallizzandosi attorno ad arroccamenti deleteri ed al cedimento quasi pavloviano al ricorso a vecchie abitudini e obsolete iniziative.

Se è vero che all’esecutivo e personalmente alla Prima Ministra non può rimproverarsi di non aver tentato di convincere e di mediare, è altrettanto evidente che Macron si trincera (forse anche perché non più rieleggibile) dietro una postura decisionista ad oltranza, quanto meno sul piano della comunicazione,  che suscita perplessità persino nel suo campo. Il Presidente si volge ostentatamente ai prioritari impegni internazionali ed europei, certamente pressanti, sul fronte dei quali è apprezzato persino da alcuni suoi detrattori. Ma anche in questo settore sembra venuto meno quell’afflato di creatività e di innovazione che lo aveva ispirato in passato, mentre si riaffaccia la tentazione ripetitiva di schemi superati. In particolare con una sorta di acritico ed incondizionato ritorno all’esclusività à tout prix dell’intesa con la Germania, senza farlo precedere da nessuno di quegli approfondimenti che pure le incrinature senza precedenti dei mesi scorsi (e le parallele aperture dell’Eliseo al di là dell’asse Parigi-Berlino) sembravano postulare: la missione congiunta franco-tedesca negli Usa dei due Ministri dell’Economia senza alcun chiaro mandato europeo e, più ancora, la frettolosa e demagogica iniziativa dell’incontro tripartito con Zelensky sembrano dettate più che da una articolata visione strategica,  da un precipitoso ripiego di natura difensiva. Ricordano, mutatis mutandis, l’indebolimento di Sarkozy nell’epilogo a lui sfavorevole della crisi dei sub-prime, pur preceduto dalla magistrale conduzione della Presidenza francese di turno dell’UE nel 2008, che lo indussero a “rifugiarsi” nelle braccia protettive di  Angela Merkel, spostando su Berlino il baricentro del couple franco-allemand.

Qualche scricchiolio va inoltre registrato fra gli alleati di Macron, con la battuta d’arresto nel percorso di Edouard Philippe che, colpito fra l’altro da una misteriosa forma di vitiligine combinata all’alopecia, appare indebolito nel disegno embrionale di incarnare, per il 2027, una candidatura presidenziale radicata in un potenziale consenso popolare  ed in linea di continuità con il progetto originario della République en Marche e con il carisma del suo fondatore.

È all’opposizione, tuttavia, che si è da ultimo rivolto il Presidente in una delle sue rare esternazioni del momento,  invitandola nell’interesse del Paese a ritrovare la bussola. Il futuro, infatti, appare denso di incertezze e di interrogativi che il movimentismo del cartello delle sinistre, ed in particolare l’infaticabile azione destabilizzatrice del tribuno Mélenchon, cavalcano spregiudicatamente, invocando alternative poco praticabili di segno marcatamente protestatario e populista, come il ricorso a riforme istituzionali in senso plebiscitario ed a forme non meglio precisate di democrazia diretta.

Un dato fra tutti inquieta il campo della ragione ed è rappresentato dalla conferma di una crescente disaffezione alla politica e di una forma nuova di scetticismo che allontana soprattutto i giovani dalla democrazia partecipativa e dalle urne: un segnale preoccupante che, anche in Italia, ha segnato con una astensione record il pur eloquente e nettissimo risultato delle Regionali.


Giovanni Caracciolo di Vietri, Ambasciatore d’Italia a riposo, ha prestato servizio, all’inizio della carriera, come addetto al Gabinetto di Aldo Moro e successivamente presso le Ambasciate di Addis Abeba e Washington. A Roma, ha collaborato con il Presidente Francesco Cossiga per tutto il suo settennato. Al Ministero degli Esteri, ha ricoperto gli incarichi di Vice Direttore Generale dell’Emigrazione e degli Affari Sociali, poi di Direttore Generale dei Paesi dell’Europa. È stato Capo Missione a Belgrado, a Ginevra ed a Parigi. Terminato il servizio attivo, nel 2013 gli è stata affidata la guida, per i successivi sei anni ed in qualità di Segretario Generale, dell’Ince, la più antica organizzazione di cooperazione regionale intereuropea operante nei Balcani e in Europa centrale. Ha collaborato a Il Commento Politico con le Lettere da Parigi, con il nom de plume de l’Abate Galiani.

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