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Trump e la dura lex della democrazia

WASHINGTON – La notizia tanto attesa è finalmente sulle prime pagine dei giornali: l’ex Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è ufficialmente accusato dalla magistratura dello Stato di New York e dovrà presentarsi entro una settimana davanti alla procura di Manhattan per essere formalmente informato dei capi d’accusa di cui dovrà rispondere in tribunale. La loro natura è tuttora coperta dal segreto istruttorio, anche se certamente includerà l’accusa di frode, commessa nel corso della sua vittoriosa campagna elettorale del 2016, quando avrebbe stornato dei fondi ufficialmente destinati alla campagna elettorale per mettere a tacere una donna con cui avrebbe avuto una relazione clandestina. Questo sviluppo non è un colpo di mano del magistrato, bensì l’esito di una lunga e meticolosa procedura culminata nel verdetto della Corte Suprema dello Stato di New York, emessa da una giuria di dodici cittadini indipendenti, come prescrive la legge. Se non si presenterà volontariamente, Trump dovrà essere estradato dallo Stato della Florida, dove risiede attualmente, il che comporta l’interessante conseguenza di metterlo nelle mani del suo compagno di partito ma rivale politico Ron De Santis, il Governatore di quello Stato. Inoltre, a complemento delle tradizioni punitive della legge di New York, verrà compilata la sua scheda criminale completa di foto, impronte digitali, e raccolta del DNA. La tradizione prevedrebbe infine l’umiliante perp walk, quando gli accusati sono fatti passare attraverso una folla di giornalisti e fotografi in caccia dello scatto del secolo.

Sarà la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un ex-Presidente (ma non Vice-Presidenti) si troverà a dover affrontare da imputato la giustizia del suo paese e dichiarare innocenza o colpevolezza, per poi molto probabilmente essere rilasciato in attesa di giudizio.

Trump, va ricordato, potrebbe ora essere incriminato in Georgia per il suo tentativo di sovvertire le elezioni del 2016 manipolando il voto in quello Stato, ed ancora a livello federale per altre infrazioni.

Fin qui quanto si conosce a questo punto della vicenda.

Ora comincia un nuovo capitolo della storia della democrazia americana: il processo di un ex-Presidente, anche uno che sia sopravvissuto a due procedimenti parlamentari di impeachment, è un fatto storico di per sé, ma lo è ancora di più se si guarda su quale sfondo si sviluppa questo incidente.

Mai l’America è stata così divisa. Oggi molti americani tripudiano, ed altri insorgono -per lo meno a parole. Ma tutti trattengono il fiato in attesa del prossimo capitolo: siamo nell’anticamera delle elezioni presidenziali del prossimo anno, e ogni gesto viene pesato in conseguenza. Non c’è dubbio che i magistrati di New York abbiano già lungamente riflettuto sulla portata di questa decisione, di per sé straordinaria, che per di più interviene in questo momento politico.

Mai, a memoria d’uomo, l’America è stata così divisa: Trump non ha inventato la destra oltranzista del suo paese, ma l’ha aiutata a riconoscersi, e ora esiste: ed è un fattore capitale nella politica della nazione, nonché – attraverso la legislazione e la giurisprudenza – nella vita dei suoi cittadini. È legittimo interrogarsi sull’incerto momento vissuto dalla sua democrazia, che è da oltre due secoli la ragion d’essere di questo paese: o l’America è una democrazia, o rischia di cessare di essere di una nazione.

Esistono oggi infatti due visioni contrapposte e nettamente contrastanti dell’America e del suo futuro. Solo un paio di settimane fa, una parlamentare Repubblicana vicina alla destra più spinta, ha proclamato in aula senza battere ciglio che sarebbe tempo di pensare a un “divorzio nazionale” – provocando un brivido nella spina dorsale dei trecentotrenta milioni di cittadini americani la cui mente dev’essere subito andata alla guerra di secessione (e ai 750.000 morti che ha provocato, tuttora la guerra più sanguinosa della storia americana). In un paese dove circolano oltre 400 milioni di armi da fuoco (che non sono lo schioppo del nonno) non è solo uno scherzo di cattivo gusto, bensì un brusco richiamo al sacrificio di sangue che si è già versato per affermare l’unità nazionale, e insieme la sua vocazione democratica.

Eppure ancor oggi il vessillo di guerra degli Stati della secessione si vede sventolare caparbiamente nel nuovo Sud, che non ha più le piantagioni ma non ha perso la sua storia. Anche se oggi evidentemente non esiste più una società fondata sulla schiavitù dei servi africani (prescindendo dalle moderne forme di asservimento che non sono certo monopolio del Sud), si è venuta affermando all’interno del paese una linea di frattura in cui il mito individualista si scontra con quello della società solidale. Non c’è una divisione geografica come al tempo della Mason-Dixie line, però esiste un fossato ideale che divide non gli Stati ma i cittadini, ed è per questo ancora più grave. Sembrerebbe che esistano oggi due Americhe volte a ideali contrastanti, ma contemporanee e minutamente intrecciate tra loro in maniera così fine che non si può più dipanare, e questo stato di cose si riflette visibilmente sulla governabilità, condannando i governi ad appoggiarsi su maggioranze instabili o insignificanti.

Nel 2016, senza pensarci troppo, l’America che abbiamo conosciuto ha preso un bivio. Con l’elezione di Trump sette anni fa la macchina della politica tradizionale si è inceppata, o meglio ha manifestato una inattesa lacuna; da allora sono mutati i parametri significativi della politica americana. Negli ultimi decenni era già cambiato il mix razziale del paese, con la crescita della popolazione di colore e della matrice ispanica; sono anche cambiati i rapporti demografici tra le regioni, con riflessi sulla formazione della Camera dei Rappresentanti (non del Senato, che aggiudica due seggi ad ogni Stato, senza riferimento alla popolazione) ed è cambiata l’America dei cittadini, degli agricoltori, degli operai, degli intellettuali. L’elenco delle guerre inutili o nefaste si è allungato: cinquant’anni di esperienza post-Vietnam, post-Watergate, post-guerra fredda, post “guerra al terrorismo”, la rivoluzione tecnologica e l’emergere della Cina tra le grandi potenze hanno lasciato il segno sulla nazione, che si è ricombinata per rispondere alle sfide nuove.

Su questo sfondo, che effetto avrà il processo di Trump e l’eventuale sua condanna?

Aspettiamoci un intenso vittimismo alimentato dall’ex-Presidente, che – da vecchio conduttore di serial televisivi- ha tendenza a sceneggiare la propria immagine. Potrebbe anche ritorcersi contro di lui: la figura della vittima non è popolare e stona con quella della virilità che Trump cerca di proiettare. Potevano i magistrati agire diversamente? Assolutamente no. Dura lex, sed lex dicevano i nostri antenati, che in materia se ne intendevano. Nessuno è superiore alla legge, si dice qui; una Repubblica che si vuole basata sui princìpi, con l’accento al posto giusto, non può perdere la faccia senza perdere anche tutto il resto. L’America quindi ha preso questa via e dovrà ora percorrerla.

Il partito Repubblicano dovrà ora affrontare un dilemma. I politici del GOP dovranno decidere se scegliere la cieca lealtà a favore di Trump, timorosi della sua presa sull’elettorato e consci che il partito ha appena confermato la sua sostanziale adesione; oppure scegliere questa occasione per differenziarsi, nella prospettiva che l’esito finale della vicenda veda un Trump neutralizzato o addirittura incarcerato, in tempo per la campagna elettorale: se si dovrà affrontare il voto nel 2024 senza Trump o con un Trump vulnerabile, i candidati alternativi dovranno presto uscire allo scoperto.

Del resto, non tutti i seguaci di Trump prenderanno le sue parti. Dietro di lui ci sono anche coloro che vedono nella sinistra americana una subdola incarnazione del marxismo che rischia di inquinare la limpida idea nazionale dei fondatori, e perciò mai voterebbero per il partito Democratico: ma potrebbero anche perdere la voglia di votare per il Donald nazionale. 

Infine, non dimentichiamo che all’ex-Presidente non dispiace l’alternativa eroica: e allora si riproporrebbe (e Trump infatti sembra saggiare il terreno) la minaccia di una ripetizione meglio preparata del fallito putsch del 6 gennaio.


Francesco Olivieri è stato un diplomatico italiano che ha lavorato negli Stati Uniti, in Venezuela, a Bruxelles, in Cina, in Italia per il Ministero del Commercio Estero. È stato ambasciatore in Cecoslovacchia (poi ristretta a Cechia) e in Croazia, quindi Consigliere di politica estera del Presidente del Consiglio e per tre anni Sherpa del G8, infine ambasciatore all’OCSE, alla Agenzia Spaziale Europea e alla Agenzia Internazionale per l’Energia. Lasciata la Farnesina, ha lavorato con l’Enel in Italia e poi nuovamente negli USA, dove ha aperto la sede di Washington dell’azienda italiana. Ha scritto le “Lettere da Washington” per Il Commento Politico con il nom de plume Franklin, mosso dall’istintiva simpatia per un grand’uomo che aveva sense of humor, nella sua vita era stato un diplomatico di successo e per di più aveva – come Franklin – l’abitudine di inventare congegni pratici, nel suo rifugio in Pennsylvania.

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