di Piero Valesio
All’inizio fu “Die Gelbe Wand”, il muro giallo: la curva del Borussia Dortmund, squadra tedesca di una città dalle grandi tradizioni industriali. Il Wand è stato il primo a schierarsi apertamente a favore del boicottaggio di Qatar 2022, l’edizione dei mondiali più controversa forse della storia. Poi sono arrivate la Virage Sud, la curva dei tifosi dell’OM, l’Olympique di Marsiglia, la più multirazziale d’Europa, da sempre schierata contro l’Uefa, la Fifa e i potentati del calcio. In Italia Atalanta e Bologna si sono iscritte a questa corrente di pensiero (associando il boicottaggio “mondiale” ad un’altra antica battaglia di molte tifoserie: quella contro “la pay tv”, per quanto questo termine possa ormai apparire obsoleto) in ore più recenti. Ma è un dato di fatto che l’evento qatariota sia finito nel mirino di molti osservatori per vari e svariati motivi: in primis le controversissime circostanze in cui è andata in scena l’aggiudicazione dell’evento (16 dei 24 membri del Consiglio Fifa che assegnarono il Mondiale al Qatar sono poi finiti nei guai a causa di quel voto) e poi lo scarso (eufemismo) rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Soprattutto nei confronti degli immigrati che sono arrivati (o sono stati trasportati) in Qatar per costruire gli stadi in cui si giocheranno le partite da domenica 20 novembre.
Soprattutto il Al-Bayt di Al Khor, dove si giocherà la partita inaugurale fra i padroni di casa e l’Ecuador: un impianto da 60.000 posti concepito sul modello di una tenda beduina che inaugurerà di fatto una prassi destinata a diventare norma nei prossimi anni a causa del riscaldamento globale del pianeta: mentre la temperatura media in Qatar supererà agevolmente i 30 gradi, dentro l’impianto si assesterà tra i 20 e i 25 gradi, grazie ad un sistema poggiato su pompe di condizionamento che dovrebbe garantire agli spettatori di vivere un’esperienza gradevole e ai giocatori in campo di non collassare per il caldo. Lo stadio al Bayt è stato progettato da Albert Speer, architetto tedesco figlio di quell’Albert Speer che fu sodale (anzi: erede prediletto) di Adolf Hitler, che progettò la Berlino capitale del Reich millenario e che, in qualità di ministro della guerra, si rese responsabile, negli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale, di uno sfruttamento di massa della forza lavoro. Pratica che, impossibile non notarlo, ha molti punti in comune con quello cui si è assistito in Qatar negli anni precedenti al Mondiale.
Il nome di Albert Speer padre potrebbe assurgere al ruolo di simbolo del rapporto spesso contraddittorio fra gli organismi che gestiscono il business sportivo e i paesi che abbiano problemi seri con il rispetto dei rapporti umani. Speer fu uno dei massimi sostenitori dei Giochi Olimpici invernali di Garmisch-Partenkirchen e soprattutto di quelli estivi di Berlino ’36 a differenza di Hitler che, almeno in un primo momento, era perplesso (“I Giochi sono una congiura di massoni ed ebrei”, sosteneva all’indomani dell’edizione di Los Angeles ’32, a pochi mesi dalla conquista del potere).
Quei Giochi sono ancora oggi l’esempio più nitido di come molti gestori dello sport mondiale abbiano sacrificato i valori umani sull’altare del business, spesso mascherato dal desiderio di non “compromettere” la purezza dello sport con questioni di natura politica. In quel caso il presidente del Cio, Henri de Baillet Latour, colui che aveva preso il posto del barone De Coubertin, l’inventore dei Giochi moderni, ma soprattutto il gran Capo del Comitato Olimpico americano, Avery Brundage, che in seguito sarebbe diventato presidente del Cio e tale sarebbe rimasto per vent’anni, dal ’52 al ’72, presero pedissequamente per buone le garanzie che Hitler e i suoi sgherri gli fornirono: e cioè che nessuna persecuzione era in corso ai danni degli ebrei. E che nelle squadre olimpiche tedesche ci sarebbe stato spazio “per atleti ebrei”. A dire il vero per “almeno uno”. Come andarono le cose è fatto noto: alla saltatrice in alto Gretel Bergmann, ad esempio, fu prima concesso di entrare in squadra ma poi le fu impedito di partecipare alle selezioni per i Giochi. Fatta la legge, trovato l’inganno.
Per passare dall’orbita olimpica a quella strettamente calcistica è giusto ricordare i Mondiali del ’78 in Argentina che si disputarono mentre il Paese era dominato dalla feroce dittatura di Videla&Massera: e in cui non solo i diritti umani non venivano rispettati a nessun livello ma a pochi metri dallo Stadio Monumental di Buenos Aires aveva sede la Scuola della Marina dove i giovani, reclusi e seviziati, erano nell’anticamera del loro diventare desaparecidos: c’è stato chi opportunamente ha scritto che mentre la Seleccion guidata dal “Flaco” Cesar Luis Menotti portava a termine la conquista del Mondiale, un orecchio particolarmente sensibile avrebbe potuto cogliere le urla di dolore dei ragazzi torturati a poche centinata di metri. Il tutto senza ovviamente dimenticare che nemmeno il nostro paese è scevro da responsabilità: nel 1930 i Mondiali si giocarono nell’Italia di Mussolini e il Duce costruì attorno all’evento e alla vittoria della squadra di Vittorio Pozzo una narrazione che oggi non si esiterebbe a definire di perfetto stile nordcoreano.
E tanto per chiudere il cerchio tornando alle Olimpiadi, l’anno scorso i Giochi invernali si sono svolti in Cina, terra non certo celebre per il rispetto dei diritti umani, della comunità Lgbtq+ e di minoranze varie: e la cerimonia inaugurale (con Vladimir Putin stravaccato, nel senso letterale, in tribuna d’onore) si svolse a Pechino a pochi giorni dal dissolvimento nel nulla della tennista Shuai Peng, rea di aver accusato un dirigente del Partito di molestie sessuali; e “ricomparsa” a poche ore dalla cerimonia per una intervista con il quotidiano francese L’Equipe in un contesto inquietante: affiancata da un controllore e con risposte monosillabiche.
Nonostante assai più di un secolo sia trascorso dalla nascita dello sport così come lo concepiamo oggi, la trasformazione planetaria di ciò che erano “i giochi inglesi”, la questione è dunque ancora del tutto aperta: quali sono le condizioni che i gestori dello sport mondiale devono porre per concedere i diritti di organizzazione delle manifestazioni più importanti?
I 6200 morti sul lavoro in Qatar per la costruzione degli stadi (cifra riportata dal Guardian e ritenuta falsa da fonti ufficiali qatariote) sarebbero un buon motivo per fare in modo che in futuro i grandi eventi sportivi, oltre a imboccare la strada dell’assoluta sostenibiltà ambientale, vengano assegnati solo a Paesi che garantiscano totale rispetto per i diritti di tutte le persone? Chi oggi contesta la scelta dei Mondiali in Qatar dovrebbe ricordare che da quasi 20 anni a questa parte il Qatar è un luogo-perno dello sport mondiale: sede di un GP del Motomondiale (ormai appuntamento fisso del calendario), ha ospitato a più riprese tornei Atp e Wta di tennis compreso un Master femminile di fine anno. Il tempo per conoscere in Qatar c’era. Nessuno si è mosso. Anzi.
Forse lo sport mondiale avrà non solo nei prossimi giorni, quelli in cui si disputerà il Mondiale, ma soprattutto dopo, l’opportunità di porsi la madre di tutte le domande: il tanto decantato lignaggio di “linguaggio globale” che accomuna (dovrebbe almeno) i popoli, non dovrebbe forse fare dei grandi eventi un’occasione assoluta di passione per il pianeta, l’umanità e l’umano, invece di cedere senza colpo ferire alle esigenze del business? E qualora non accettasse questa sfida non emergerebbe forse l’esigenza di una rifondazione morale e organizzativa di tutto lo sport mondiale? Il dibattito è aperto. Se mai ci sarà, un dibattito.
Piero Valesio è nato a Torino 61 anni fa. Giornalista dal 1985 ha seguito Olimpiadi e grandi eventi sportivi per il quotidiano Tuttosport. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e curato la comunicazione degli Internazionali di tennis di Roma. Ha firmato rubriche per Sport Mediaset e scritto per Il Messaggero. Attualmente scrive del rapporto fra sport, serialità e tecnologia sul sito specializzato Sport In Media e di attualità tennistica su Ok tennis.