The headquarters of the European Central Bank (ECB) is pictured in Frankfurt am Main, western Germany, on March 12, 2020. - The ECB's governing council left its key interest rates unchanged but unveiled fresh stimulus to keep liquidity flowing in the face of the worsening coronavirus crisis, joining efforts by central banks around the world. (Photo by Daniel ROLAND / AFP) TLB courtesy: 12/06/2020 - Ansa|

La BCE decide di non decidere. E la politica?

Che cosa significa che la BCE decide di tener fermi i tassi? Che essa non ravvisa né le condizioni per allargare, né per stringere, diversamente dalla FED. Ma le condizioni di contesto, tra le due sponde dell’Atlantico, sono diverse. E anche se l’inflazione è negli Stati Uniti più elevata che nell’area dell’euro, lì pare aver pesato la dinamica dell’occupazione, oggi meno favorevole di qualche mesa fa. Ma la FED ha un mandato duale (crescita e stabilità). Quello della BCE è centrato sulla sola stabilità dei prezzi. E qui, nell’area euro, la disinflazione si è realizzata. L’inflazione, che nel 2022 aveva raggiunto il picco del 10%, è oggi intorno al 2%. Certo, l’incertezza permane, per la guerra dei dazi e per le guerre guerreggiate, e infatti Francoforte non assume impegni per il futuro, se non quello di continuare a decidere incontro dopo di incontro e “sulla base dei dati”.

Insomma, è finito l’attivismo che, in un verso prima e nell’altro poi, ha caratterizzato gli ultimi dieci anni, prima con l’espansione monetaria (per far fronte ai rischi della deflazione nel post-Grande recessione), poi con la restrizione (per far fronte a quelli dell’inflazione nel post-Covid e Ucraina). Il mare pare (pare) calmo: e la BCE spegne i motori e decide di andare col vento.

Ma la crescita, che pure secondo la BCE tutto sommato regge, resta pur sempre modesta, intorno all’1 per cento. E il messaggio implicito è che il compito di propiziarla e realizzarla spetta ai governi e alle imprese, con investimenti pubblici e con investimenti privati. Hic sunt leones.

Perché, se è vero che nel breve termine la crescita europea dipende anche, in certa misura, dalla capacità per la Germania di fuoriuscire definitivamente dalle secche della recessione e per la Francia dall’endemica instabilità politica, dall’altra è inutile negare che quel poco di crescita che c’è stata negli ultimi anni è dipesa anche, e nel caso dell’Italia soprattutto, dai piani di ripresa legati al Next Generation EU (il PNRR), che termineranno nel 2026. E dopo? A suo tempo si era detto che sarebbe stato opportuno pensare a una qualche forma di sua riproposizione, magari aggiungendo una “s”: Next Generations, come compito e impegno permanente per il futuro. Ma quel “momento hamiltoniano” (il debito comune, la prospettiva federale …) sembra finito, e non vorremmo che si tornasse a un più o meno larvato “tempo jeffersoniano”, secondo il quale, come è noto, il “governo che governa meglio è il governo che governa meno”. L’Europa ha bisogno di decidere e di organizzarsi, insomma ha bisogno di Politica: specie in questa nuova “età del ferro”, come si va dicendo, in cui decisioni vitali per il suo futuro vengono assunte fuori dai suoi confini.


Giovanni Farese è Professore ordinario di Storia economica nell’Università Europea di Roma. Insegna Storia dell’economia nella LUISS Guido Carli. È Managing Editor di The Journal of European Economic History e Marshall Memorial Fellow del German Marshall Fund of the United States. 

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