Bruxelles – Pur scandendo numerose “giornate” internazionali per celebrare valori ed episodi che forgiano la sua identità, l’Europa istituzionale non ha mai prestato troppa attenzione alla Repubblica Romana, della cui costituzione oggi, 9 febbraio, cade il 175° anniversario. Né a Mazzini è dedicato uno della ventina degli edifici del Parlamento Europeo, o anche solo una delle tante sale di riunione – al cospetto del celebre palazzo Spinelli, delle aule intitolate ad Alcide De Gasperi, Renzo Imbeni, Alex Langer, o del busto di De Martino collocato di fronte alla plenaria di Bruxelles.
Eppure la “migliore Europa” cominciò proprio a Roma, in quei ferventi mesi che anticiparono di un secolo conquiste che non solo l’Italia, ma buona parte del continente, avrebbero raggiunto con la sconfitta del nazi-fascismo. Dispositivi costituzionali del 1849 che sono quanto l’Europa di oggi predica nel resto del mondo come i propri valori fondanti: suffragio universale, abolizione della pena di morte, della censura e della tortura, libertà di culto con piena emancipazione degli ebrei, separazione dei poteri e laicità delle istituzioni, libertà di insegnamento e di associazione.
Più che le istituzioni europee di oggi, capirono cosa fosse in gioco, non solo per l’Italia ma per tutto il continente, le migliaia di volontari che giunsero a dar manforte a Roma da ogni paese – Polonia, Francia, Bulgaria, Germania, Olanda, e altri ancora – precursori dello spirito di quelle “brigate internazionali” che, dalla Spagna alla Resistenza e oltre, hanno testimoniato la spontanea mobilitazione in armi di una cittadinanza europea. Infatti la Costituzione della Repubblica Romana merita maggiore considerazione, anche per il contributo unico dato ad alcuni aspetti che oggi sono centrali nella costruzione europea. In poche parole, il principio IV (“La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana.”), è una felice lezione per lo stentato europeismo di oggi, per la confusione che continuamente si fa tra “popolo europeo” ed “Europa dei popoli”, tra identità nazionale e comune origine e destino di fratelli.
In modo altrettanto cristallino, i principi V e VI (“I Municipi hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato”; “La più equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello Stato, è la norma del riparto territoriale della Repubblica”), chiariscono i principi di sussidiarietà e di decentramento alla base degli equilibri istituzionali tra Stati membri e Unione, sui quali si continua ancora oggi a pasticciare. Inoltre, per la prima volta, con l’articolo 1, si risolve il confronto con l’“altro”, concedendo la cittadinanza a tutti i non italiani residenti da dieci anni, con uno spirito di apertura eccezionale per l’epoca come per il presente – e anziché demonizzare gli stranieri si preferì concentrarsi sui nemici interni, abolendo “tutti i privilegi di nobiltà, nascita o casta”. Lo stesso triumvirato della Repubblica, questa leadership suddivisa che evita l’uomo forte, pare anticipare la dialettica dei vertici delle tre principali istituzioni europee.
Infine, a mettere chiarezza su quella “legittimità democratica” oggi così controversa in Europa, il primo principio della Costituzione afferma un concetto ancora travisato: “La sovranità è per diritto eterno nel popolo”. Essa non è “del” popolo, ma “nel” popolo. I cittadini non dispongono della sovranità in modo tale da poterla cedere a terzi – siano l’uomo forte di turno che raccoglie consensi maggioritari, o un’astratta entità burocratica sovranazionale. No: la sovranità resta dentro il popolo, da lì non può muoversi – ed è esattamente ciò di cui l’Europa di oggi ha bisogno, insieme a una carta costituzionale stringata e comprensibile, anziché le pile di trattati UE che hanno eretto un muro tra norma europea e cittadino.
Il 9 febbraio non si ricorda dunque un museo, ma un motore dell’idea e del processo di realizzazione dell’Europa del futuro. Più che una commemorazione, dovremmo avere una “festa”.
Ma non è così. Anche in Europa la Costituzione mazziniana pare discriminata dalla secolare diffidenza socialista e marxista, dottrine che non accettavano l’inviolabilità della proprietà privata prevista dall’articolo 3 della Costituzione e ancora meno accettavano che un tale manifesto di progresso fosse non loro ma opera della sinistra democratica, e di quella della cultura cattolica che nella Repubblica Romana ha visto il primo netto spartiacque tra i ruoli dello Stato e della Chiesa. Non sono dunque molti a ricordare il 9 febbraio 175 anni dopo, e forse l’attuale poco slancio nel progetto europeo è figlio anche di questo oblio. Ma noi non ci stiamo, e festeggiamo, perché quel 9 febbraio non fu un mero intento, ma l’affermazione di quello spirito di innovazione che è quanto occorre all’Europa di oggi.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.