guerra e pace

Guerra e pace: parole giuste, senza ambiguità

(Bruxelles) – L’Europa procede su un crinale pericoloso, un passo falso può comportare una tragedia. Una responsabilità che comporta anche il rispetto delle parole e dei comportamenti istituzionali: “Le parole sono importanti”, e invece si equivoca, si abusa.

“Pace” è invocata da tutti. È un vocabolo diventato una sorta di mantra, buono per ogni stagione, senza svelare le vere intenzioni, senza voler spiegarne le implicazioni. Pace come resa incondizionata? Come cessazione del sostegno militare a Kiev e poi accada quel che accada? Come scioglimento della NATO? Come un intavolare negoziati non si sa bene con chi e con quali obiettivi, magari ricordando che Putin ha rifiutato di partecipare anche a un vertice tra membri permanenti del Consiglio di Sicurezza?

Auspichiamo più precisione, anche semantica. Fu “pace” la scelta dell’Europa di avallare di fatto l’annessione manu militari della Crimea nel 2014? Quanto poteva durare, quanto è poi durata?

Per la cultura laica, il concetto di pace è intrinsecamente legato a quello di giustizia – “Non c’è pace senza giustizia” – e dunque a un equilibrio sostenibile, spesso incardinato sul ripristino del diritto internazionale, non su una prevaricazione.

È un’antica posizione laica fatta propria dal sentire maggioritario dei cittadini europei, come espresso alle ultime elezioni, e dai voti di luglio e di settembre al Parlamento Europeo. Voti che richiedono anch’essi un’assunzione di responsabilità, un “metterci la faccia”, mentre invece sono strumentalizzati e spacciati per quello che non sono stati.

Prendiamo l’ultima risoluzione del Parlamento Europeo sul sostegno all’Ucraina. Se si vota contro il paragrafo che chiede l’uso delle armi occidentali date all’Ucraina anche verso obiettivi militari in Russia, o contro quello favorevole all’adesione di Kiev alla NATO, ma poi si sostiene il testo finale che pure include quei paragrafi, non si può poi rivendicare una posizione che non sia riflessa nella risoluzione approvata a cui si è dato il voto.

In un’epoca di confusione e di labile confine tra ciò che è morale e l’azione della politica, ognuno ha il diritto alla propria posizione, purché sia nitida e comunicata per quello che è. Invece troppa parte delle forze di maggioranza e dell’opposizione in Italia sembrano destreggiarsi con distinguo, formule astratte, annunci non consequenziali a quanto si fa. Si legge di “svolte” che mai ci sono state, si cambia tono e contenuto a seconda della platea a cui ci si rivolge – tutto fuorché assumere un comportamento senza ambiguità. I cittadini, e le decisioni da prendere, hanno bisogno di concetti precisi e d’una trasparenza di comportamento. Non di giocare con le parole e perfino con i voti, come se fossero maschere da indossare a seconda dell’occasione. Troppo comodo.


Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.

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