Jasper Johns, Map (1961)-1

L’America in disordine

L’assalto al Campidoglio, il 6 gennaio del 2021, mostrò plasticamente lo stato di crisi in cui versava la politica americana al termine dell’amministrazione Trump. Mai simili violenze avevano contrassegnato il passaggio di poteri da un presidente all’altro. In passato non erano mancati scontri istituzionali persino feroci, nella quasi totalità risolti tuttavia pacificamente tramite un qualche compromesso, onorevole o meno che fosse. Unica eccezione, la secessione sudista in seguito all’elezione di Abraham Lincoln, tanto che lo spettro di una seconda guerra civile a 160 anni dalla prima è stato più volte evocato dopo i fatti del 6 gennaio, visto anche lo sventolio di bandiere della Confederazione quel giorno tra i facinorosi. Di questi, molti adesso si trovano in carcere o sono in attesa di giudizio. Donald Trump, invece, punta di nuovo alla presidenza, sopravvissuto a due impeachment, sempre ostinato nel rivendicare la fantomatica vittoria su Joe Biden, forte di ampi consensi a dispetto dei guai giudiziari che lo assediano, inclusi quelli legati al tentativo di ribaltare l’esito delle urne fino a sobillare tumulti. Il Partito repubblicano, ostaggio della base trumpiana, incapace di prendere le distanze dall’ex-presidente sebbene ciò sia costato voti nelle ultime elezioni di midterm, si avvia infatti a candidarlo per la terza volta consecutiva.

Non è dunque veramente rientrata la crisi di cui senz’altro i risvolti eversivi del trumpismo rappresentano una spia allarmante, ma che in realtà investe il paese nel suo complesso, se la tenuta degli istituti democratici non sembra impensierire una grossa fetta di elettori ed eletti. Che all’orizzonte si prospetti una riedizione della sfida Biden-Trump, che la giustizia faccia il proprio corso rimescolando le carte, o che fattori imponderabili intervengano di qui a novembre, basti pensare alle incognite sulla scena internazionale o alle chiacchierate condizioni di salute dell’attuale inquilino della Casa Bianca, comunque l’impressione è che qualcosa di fondamentale si sia rotto. Per avanzare un’ipotesi di lettura, piuttosto che schiacciare lo sguardo solamente sul dato contingente, magari compulsando aleatori sondaggi, conviene pertanto rivolgerlo all’indietro e allargarlo a tendenze di lungo periodo.

La minaccia paramilitare

Per cominciare, non è una novità la presenza in America di formazioni paramilitari destrorse o confusamente apolitiche, il cui tratto dominante è l’ostilità al governo di Washington, percepito come tirannico. Composte originariamente da reduci di guerra e suprematisti bianchi, si moltiplicarono negli anni ’90 del secolo scorso nel Midwest e in diversi stati dell’ovest, scontrandosi di tanto in tanto con le forze dell’ordine e figliando uno stragista, Timothy McVeigh, autore dell’attentato agli uffici federali di Oklahoma City nel 1995, il più grave atto di terrorismo domestico nella storia americana. Recentemente, sulla scia del Tea Party, sorto in opposizione alla riforma sanitaria targata Obama e via via tramutatosi in una vasta galassia di destra, il fenomeno ha quindi assunto proporzioni inedite. Figuri in tuta mimetica muniti di giubbotti antiproiettile, fucili semiautomatici o semplici mazze da baseball popolano ora i raduni di realtà come i Proud Boys, che operano su tutto il territorio nazionale e godono di un’eccezionale visibilità. Se ne sono visti parecchi di siffatti militi nel corso delle proteste contro le restrizioni anti-Covid o nelle risse scoppiate ai margini delle manifestazioni di Black Lives Matter, e alcuni si aggiravano nei pressi dei seggi in occasione della scorsa tornata elettorale.

Va detto che negli scontri di piazza, nonostante le parate di ceffi armati fino ai denti, volano pugni, mazzate e quasi mai proiettili. Eccetto rari casi in cui qualcuno effettivamente ha premuto il grilletto, a prevalere è l’intimidazione. Se inoltre la stragrande maggioranza è bianca, la connotazione etnica non risulta del tutto omogenea, come attestano le radici afro-cubane di Enrique Tarrio, il leader dei Proud Boys oggi detenuto. Quanto alla stratificazione sociale, si registra l’incidenza di fasce impoverite della popolazione, e a questo proposito ricordiamo che fu il Michigan, epicentro della deindustrializzazione negli anni ‘70-80, a fungere inizialmente da laboratorio del fenomeno. C’è poi l’influenza di un fondamentalismo religioso largamente diffuso, condito di machismo in dosi abbondanti e già sfociato nelle periodiche, talvolta letali azioni di organizzazioni antiabortiste come l’Army of God. E c’è l’ascendente del mito rivoluzionario alle origini della nazione e, paradossalmente, quello del patriottismo costituzionale. Ispirata al giuramento di fedeltà alla Costituzione è la lotta degli Oath Keepers alla presunta tirannia federale. I Three Percenters, autoproclamata minoranza di autentici patrioti, riprendono una leggenda secondo cui, ai tempi della guerra d’indipendenza, soltanto il 3 per cento dei coloni si levò in armi. Poco fedeli agli annali pure i gruppuscoli, comprese squadre di vigilantes ai confini col Messico, che si fanno chiamare Minutemen, come gli irregolari che affrontarono le truppe agli ordini della Corona britannica – ma per citare un episodio degli anni ’60, pensiamo all’omonima banda armata di matrice anticomunista sgominata dall’Fbi prima che facesse danni. E del resto, lo stesso Tea Party prende il nome dall’evento che segnò l’inizio nel 1773 della sollevazione contro la madrepatria.

Nell’odierno calderone, tutto sommato abbastanza capiente e non si sa bene quanto esplosivo, vengono a galla vecchi mali, addirittura secolari nel caso dell’odio razziale, tuttora acceso al di là dei possibili distinguo. Se centinaia di neonazisti e nostalgici della Confederazione sudista si riuniscono per una veglia in un prestigioso campus universitario, intonando cori antisemiti al lume di torcia, e il giorno seguente uno di loro travolge in auto altri manifestanti accorsi in protesta, uccidendo una giovane donna, com’è accaduto in Virginia, a Charlottesville, nell’agosto del 2017, il pensiero corre al famigerato Ku Klux Klan. Gli incappucciati che terrorizzarono generazioni di afroamericani per oltre un secolo dopo la guerra civile, negli anni ‘20 del Novecento, quando in America crebbe il risentimento per la prolungata ondata migratoria dall’Europa meridionale e orientale, ebbero seguaci non solo nel sud segregato. Protestanti come i partigiani del proibizionismo allora in vigore, cavalcarono la crociata sull’alcol per denigrare cattolici ed ebrei, sfilando a migliaia per le strade di Washington. Sono vicende di un secolo fa e non avrebbe senso tracciare meccanicamente un paragone, ma insomma la miscela di identità etno-razziale, furia moralizzatrice e violenza non è cosa inaudita oltreoceano.

Riguardo alla relativa tolleranza finora dimostrata nei confronti della subdola minaccia paramilitare, anch’essa rimanda a circostanze remote. Si giustifica con una lettura lasca del secondo emendamento alla Costituzione, che dal 1791 sancisce il diritto alla detenzione di armi laddove “una ben regolata milizia” è considerata “necessaria alla sicurezza di uno stato libero”. In merito, altre clausole del dettato costituzionale e una consolidata giurisprudenza riconoscono la chiara primazia del governo federale e secondariamente dei singoli stati, come previsto per la Guardia Nazionale, eppure la magistratura generalmente esita a reprimere milizie, va da sé, per nulla regolari.

La destra da McCarthy a Trump

Ma che dire di questioni più squisitamente politiche, in particolare della deriva a destra dei repubblicani? L’accenno fatto innanzi a certi eccessi dell’anticomunismo riporta alla mente la fanatica “caccia alle streghe” associata al nome di Joseph McCarthy, il maccartismo, che nella temperie della guerra fredda conquistò l’immaginario di tanti e fu duro a morire. La censura del Senato ai danni di McCarthy nel 1954 non impedì ad almeno un terzo degli americani, stando ai sondaggi dell’epoca, di continuare idealmente a sostenerlo, ed esattamente dieci anni dopo un altro senatore repubblicano, Barry Goldwater, che si era opposto a quel voto di censura, accettò la nomination alla Casa Bianca invocando “l’estremismo in difesa della libertà”. Figura chiave seppur sconfitto nelle presidenziali del 1964, Goldwater denunciò oltretutto lo storico Civil Rights Act voluto dalle amministrazioni Kennedy e Johnson, rinnegando così principi fino ad allora saldi nel partito che fu di Lincoln. Perse le elezioni ma strizzò l’occhio ai segregazionisti che voltavano le spalle ai democratici, anticipando la “strategia sudista” adottata con successo da Richard Nixon e destinata a ridisegnare la mappa elettorale del paese in favore dei repubblicani. La sua candidatura attirò inoltre una leva di giovani attivisti e fu lui a lanciare nel firmamento politico la stella di Ronald Reagan, che gli fece da eloquente testimonial. E nel 1980, alla fine di un decennio segnato dalla disfatta in Vietnam, dal Watergate, dalla stagflazione, dall’esaurirsi dei moti contestatari, proprio Reagan guadagnava la presidenza, ereditando la “maggioranza silenziosa” di nixoniana memoria e vincendo sulle ali di una rivolta covata a lungo, quella della New Right: nazionalista, evangelica, quasi uniformemente bianca, legata ai valori della famiglia tradizionale e all’ethos individualista caro ai conservatori, avversa in tempi di vacche magre tanto a un fisco pesante quanto a un welfare troppo generoso verso afroamericani e altre minoranze scarsamente “meritevoli”.

Data giusto dagli anni ‘80 una specie di tira e molla tra la classe dirigente e l’ala movimentista del Partito repubblicano. Sotto la presidenza Reagan fu rilanciata la guerra fredda, poi conclusasi con l’implosione del blocco sovietico, e si cambiò rotta alle politiche economiche e sociali: deregulation, tagli alle tasse e ai programmi assistenziali, campagne securitarie tra cui la “guerra alla droga” avviata in precedenza da Nixon ma assai intensificata, peraltro gonfiando le carceri di detenuti dalla pelle nera. La svolta – dalla ripresa dell’economia nel segno del liberismo alla rinnovata sfida all’Unione Sovietica, fino al ribadito imperativo “legge e ordine” – andava nella direzione auspicata dalla base, che tuttavia spingeva ulteriormente a destra, e vedendosi regolarmente mobilitata in vista delle elezioni, scalpitava insoddisfatta.

A fare le spese di questa rabbia latente fu il successore di Reagan, George H.W. Bush, che per sanare i conti pubblici – la Reaganomics e il riarmo nella fase finale della guerra fredda coincisero con un’impennata del debito – mise mano a un modesto incremento delle tasse. Gli costò la rielezione in una corsa a tre con il democratico Bill Clinton e il miliardario populista Ross Perot, che si accaparrò circa un quinto dei voti – ma già nelle primarie di partito l’ultraconservatore Pat Buchanan aveva insidiato la leadership del presidente uscente. Capitalizzò invece sulle pulsioni dell’elettorato Newt Gingrich, speaker della Camera dei Rappresentanti dopo che nel 1994 il fallimento di un’altra riforma sanitaria proposta dall’amministrazione Clinton riconsegnò ai repubblicani entrambi i rami del Congresso per la prima volta in quarant’anni. Alfiere del rigore fiscale e paladino della destra religiosa, Gingrich precipitò due government shutdown, ossia forzò ripetutamente la chiusura degli uffici governativi in un drammatico braccio di ferro coi democratici sul bilancio federale, e pilotò l’impeachment del fedifrago Clinton.

Col nuovo millennio aperto dalla controversa elezione alla presidenza di un secondo membro della dinastia Bush, George W., e dagli attentati dell’11 settembre, i repubblicani conobbero un’ulteriore avanzata, controllando per sei anni di fila tutti e tre i rami di governo, un’impresa che non riusciva loro da un’ottantina d’anni. Fu però una stagione densa di contraddizioni, chiusa da una debacle altrettanto eclatante. La “guerra al terrore” lanciata con sostegno bipartisan si incagliò nel pantano mediorientale e finì al centro di polemiche per le accuse di tortura e le draconiane misure di sorveglianza in ambito domestico, mentre Bush figlio alimentò lo “scontro di civiltà”, avendo sì premura di condannare i pregiudizi anti-islamici ma impiegando di frequente un linguaggio farcito di citazioni bibliche che infiammava gli animi. Non trovarono sbocco i tentativi di regolamentare l’immigrazione, intensa dal sudest asiatico ma soprattutto dal Messico e dal resto dell’America Latina sin dagli anni ’80, anch’essi bipartisan, assecondati da un’amministrazione con un discreto credito tra i Latinos. Altre iniziative di stampo liberista, tra cui nuovi tagli alle tasse, svanirono nella bolla speculativa esplosa tra 2006 e 2008. In quegli stessi anni i democratici riconquistavano dapprima il Congresso e successivamente la presidenza.

L’ascesa di Barack Obama alla Casa Bianca, combinata alle maggioranze democratiche in Campidoglio, provocò l’immediata e durissima reazione del Partito repubblicano. Presto si coagulò anche la risposta dal basso animata dal Tea Party, i cui attacchi al cosiddetto Obamacare rimestavano nientemeno che i fasti del totalitarismo e attingevano al razzismo strisciante dopo l’elezione del primo presidente nero. Sue caricature con anello al naso, baffetti alla Hitler o baffoni alla Stalin comparvero sui manifesti. Trascorsi un paio d’anni e nuovamente passata ai repubblicani la Camera, al coro di epiteti fece eco l’inopinata polemica sui natali kenioti di Obama, perciò ineleggibile ed illegittimamente in carica: una bufala propalata con gusto dal tycoon newyorkese celebre per la conduzione di un popolare reality show. Ben prima di entrare ufficialmente nell’agone politico, Trump vellicò i redivivi suprematisti. Quindi, al momento di candidarsi, incluse i migranti nelle sue invettive, e una volta subentrato a Obama, rincarò la dose sul piano retorico – emblematiche le pilatesche dichiarazioni sui fatti di Charlottesville – e con atti concreti come la costruzione del muro col Messico o la messa al bando degli ingressi, rifugiati compresi, da vari paesi a prevalenza musulmana. Nella campagna elettorale in corso, facendo leva sui peggiori istinti antisistema come quell’infausto 6 gennaio a Washington, ha tenuto il comizio d’apertura a Waco, Texas, nel trentennale dell’assedio alla setta dei davidiani da parte dell’Fbi, risoltosi in un massacro che il sanguinario McVeigh avrebbe “vendicato” a Oklahoma City.

La fine incerta di un ordine politico

La cifra del trumpismo non si esaurisce tuttavia nell’intolleranza a sfondo razziale, negli atteggiamenti sediziosi dati in pasto alle folle, nei messaggi in codice alle frange violente, che semmai sono intrecciati a complessi mutamenti sociopolitici di cui l’abile e spregiudicato comunicatore si fa interprete.

Qui è utile astrarre dal susseguirsi delle tornate elettorali e dall’alternanza garantita da un oliato meccanismo bipartitico. Oggigiorno si discute di crisi dell’ordine neoliberale, che in America, per un quarantennio a partire da Reagan, vide il sostanziale predominio dei repubblicani, fautori di un’economia di mercato sciolta dalle briglie dello stato interventista. Originò dal capovolgimento di un precedente ordine fondato sul New Deal rooseveltiano, di durata pressappoco equivalente, dominato dai democratici e caratterizzato dall’espansione della mano pubblica e da regole più stringenti imposte ai mercati. Se negli anni ‘50 il repubblicano Eisenhower aveva governato essenzialmente nel solco del New Deal, negli anni ‘90 il democratico Clinton si collocò analogamente rispetto alla svolta reaganiana. Adattandosi altresì al mondo post-guerra fredda e complici pure i progressi dell’elettronica, accelerò la liberalizzazione degli scambi commerciali, dei movimenti di capitale e manodopera, del sistema bancario, promuovendo globalizzazione e finanziarizzazione, raggiunse inoltre la meta del pareggio di bilancio e attuò nuove strette su welfare e sicurezza. E a tutto ciò corrispondeva una scala valoriale che premiava la responsabilità, il dinamismo e la creatività individuali.

L’ascesa decennale del conservatorismo contribuì a questi sviluppi, indubbiamente, e però non trascurabile fu la spinta innovatrice impressa dai coevi fermenti della New Left, specialmente nella sua declinazione libertaria, di cui ad esempio troviamo traccia nell’estro visionario di eccentrici capitani dell’industria informatica. Nient’affatto monolitico, tale “ordine” era d’altra parte percorso da tensioni. Destra e sinistra entrarono in conflitto sui temi che infervorarono il clima delle “guerre culturali”, come aborto e multiculturalismo. La critica all’establishment, comune ai radicalismi di vario colore politico, confluì sia nell’antistatalismo propugnato dai liberisti, sia in una sfiducia nelle istituzioni alla quale concorsero più cause: la crescente concentrazione della ricchezza a fronte di una contrazione della classe media e di permanenti sacche di povertà malgrado gli alti tassi occupazionali, la “fatica imperiale” seguita agli inciampi della superpotenza americana nella sua proiezione globale, ma anche gli effetti imprevisti di una sregolata proliferazione mediatica, prodotto dell’ennesima liberalizzazione d’epoca clintoniana e del simultaneo avvento di Internet, che accentuò la polarizzazione dell’opinione pubblica.

Il crack del 2008 e l’instabilità a livello internazionale aggravarono gli squilibri, assestando colpi solo parzialmente attutiti da Obama, che stentò a marcare una discontinuità col recente passato, pure al netto del controllo repubblicano alla Camera per buona parte del suo mandato. Sintomatica l’indulgenza nei riguardi delle grandi banche durante il salvataggio del sistema finanziario, specie se confrontata agli aiuti modesti concessi alle innumerevoli vittime della speculazione sui mutui, così come l’impronta privatistica del pur rilevante intervento sulla sanità. Condizionato da scenari foschi l’impegno in politica estera, col ritiro dall’Iraq ma non ancora dall’Afghanistan, le difficili operazioni militari in Libia e Siria dopo le primavere arabe e il dilagare dell’Isis, le asperità irrisolte nei rapporti con la Russia, gli accordi economici tentati nell’area atlantica e in quella del Pacifico dove prendeva forma il contenimento dell’espansionismo cinese.

L’irruzione di Trump sconquassò quindi la vita politica, ma avvenne all’interno di un quadro già mosso e l’insuccesso di Hillary Clinton non fu dovuto unicamente al rifiuto della visione post-razziale e cosmopolita di Obama o ai rigurgiti misogini incarnati da Trump, “uomo forte” e molestatore seriale. Gli slogan America First e Make America Great Again, espressione di nostalgie isolazioniste ed etno-nazionaliste, si tradussero in un ritorno al protezionismo che riscosse favori ed è stato replicato da Biden, il quale ha pure disposto l’estensione del muro col Messico dopo averne deplorato l’esistenza. I flirt con Putin e gli screzi agli alleati europei hanno ceduto il passo alla collaborazione transatlantica sul conflitto in Ucraina, ma i contrasti con la Cina e l’impulso alla deglobalizzazione rimangono. Se viceversa Trump ribadì la propensione dei repubblicani a detassare e deregolamentare, Biden ha riesumato gli antichi arnesi della politica industriale e confermato l’orientamento all’interventismo pubblico sperimentato per l’emergenza Covid, operando anche qui una rottura e trovando un terreno d’intesa con la sinistra di Bernie Sanders, figlia di un vento levatosi ai tempi di Occupy Wall Street, nel 2011, e che da ultimo ha gonfiato le vele di un attivismo sindacale che non si vedeva da anni, se non decenni. Nel 2022, infine, con la discussa sentenza della Corte Suprema sul diritto all’aborto è forse arrivata al culmine la lunga marcia di una destra bigotta che ha trovato in Trump un improbabile campione, perché la battaglia combattuta sul corpo delle donne porta voti ai democratici, come è accaduto nelle elezioni di midterm.

Un discorso a parte merita l’altro conflitto esploso nel frattempo in Terra Santa. Prima degli attacchi terroristici del 7 ottobre, Biden si era sostanzialmente adeguato alla strategia perseguita dal suo predecessore con gli Accordi di Abramo, ma in questo caso ci sono le linee di continuità con il tradizionale sostegno bipartisan allo Stato di Israele. La sproporzionata reazione israeliana sta però mettendo a dura prova la credibilità americana nella regione, e non solo lì, e rischia di costare al candidato democratico voti preziosi in alcuni stati chiave per la corsa alla Casa Bianca.

Insomma, sono molteplici i segni che indicano il venir meno di un ordine politico gravato da pesanti ipoteche e nella complicata transizione verso il nuovo riemergono tare storiche. L’America ha risorse e riserve ma è profondamente spaccata. Quale che sia l’esito dell’appuntamento elettorale di novembre, difficilmente le fratture esistenti verranno sanate a breve. E se anche lo spettro di un Trump rieletto dovesse svanire, non andrebbero sottovaluti gli eventuali contraccolpi. In un paese con più armi da fuoco che abitanti, ci vuole poco ad accendere la miccia.


Giacomo Mazzei, dottore di ricerca in storia contemporanea, ha vissuto a lungo oltreoceano, dove ha studiato e insegnato storia americana. Si occupa di relazioni transatlantiche, in particolare tra Italia e Stati Uniti durante la guerra fredda. È adjunct professor presso l’American University of Rome e caporedattore degli “Annali della Fondazione Ugo la Malfa”.

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