(Bruxelles) – La lezione più forte venne dal Vietnam, dove gli americani sganciarono quattro volte le bombe usate in Europa e in Giappone nella seconda guerra mondiale. Sulla carta, non c’era partita. Ma i vietcong tennero duro per oltre vent’anni, e sconfissero gli Stati Uniti dopo aver già umiliato la Francia. In Afghanistan i talebani furono apparentemente spazzati via da una coalizione internazionale a guida americana. Ma sono tornati e dopo venti anni hanno ripreso il potere. L’Iraq ha cominciato a stabilizzarsi, a modo suo, solo dopo una decina di anni dalla caduta di Saddam. Israele non è mai riuscito a piegare la volontà palestinesi, che rimangono tenacemente sulla loro terra e la cui resistenza risorge ogni volta dalle sue apparenti ceneri. I comunisti coreani lottarono e ottennero il loro Stato. Anche la Russia nei momenti di difficoltà ha sempre retto grazie alla sua spina dorsale asiatica, non certo per San Pietroburgo o Mosca. La millenaria resilienza cinese è un fatto acclarato. Quanto all’Iran, ha un storia antichissima, percorsa da lunghe guerre in cui la sua forte identità nazionale non ha mai ceduto, e anzi si è rafforzata a ogni scontro. Dieci anni di bombe dall’Iraq sostenuto dall’Occidente non ne scalfirono la resistenza.
Eppure, in Occidente sono sempre in molti a proclamare rapide vittorie in Asia. La quale risponde con tre fattori “orientali”: la capacità di sostenere perdite ingenti; di combattere per lunghi periodi, a volte insostenibili per la controparte; di rafforzare la coesione nazionale di fronte alla minaccia di una forza esterna.
È anche quanto accade in Iran: che errore pensare che le bombe israeliane avrebbero portato la piazza a rovesciare l’odioso regime di Teheran. Perché in presenza di un attacco esterno, gli iraniani si sono sempre uniti contro l’aggressore, rimandando ad altre sedi la lotta interna.
I fraintendimenti dell’Occidente arrivano a proporre un ruolo, un tempo per l’ex-re afghano e adesso per il figlio dello Scià, senza nemmeno informarsi sul loro inesistente consenso nazionale. Come mi ha detto un diplomatico arabo, “sarebbe come pensare al ritorno della Corona britannica in Iraq o in un paese del Golfo. Un film che vedete solo voi. Per non parlare di una liberazione per mano israeliana”.
Vedremo gli esiti dell’attacco all’Iran. Il programma nucleare è ostacolato, ma è presto per annunciarne la fine definitiva, mentre il regime è stato colpito, ma non è affatto crollato. Se sarà davvero una guerra di pochi giorni, sarà perché si è capito che altrimenti il conflitto avrebbe potuto espandersi nel tempo e nello spazio.
Qualora si arrivasse alla conclusione, a cui l’Europa non è giunta, che nessuna trattativa, per quanto estenuante e frustrante, può fermare il programma nucleare iraniano, si deve essere consapevoli che uno sforzo bellico ha un senso solo se lungo e doloroso per tutti, e che difficilmente può essere effettuato solo dal cielo.
L’errore risiede sempre nel separare i propri obiettivi, anche legittimi, dal fattore umano dei popoli asiatici e dalla loro storia. Una materia nella quale alcuni dirigenti occidentali non dovevano brillare a scuola. E come diciamo ai nostri figli, questo è un errore che si paga.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.