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L’Europa e la frantumazione dei blocchi

(Bruxelles) – Mongolia e Turchia hanno posto in questi ultimi giorni problemi simili. La prima ricevendo Putin e venendo meno all’obbligo di arrestarlo in quanto paese che aderisce alla Corte Penale Internazionale. La seconda, partecipando quasi negli stessi giorni a una riunione ministeriale a Bruxelles per la prima volta dopo cinque anni, e chiedendo di entrare nel BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

Non mancano le giustificazioni date dalle rispettive capitali. In un tono irrituale, una sorta di confessione di impotenza e di sovranità limitata, la Mongolia ha ricordato che importa quasi la totalità della sua energia dalla Russia e che dunque il rapporto con Mosca è questione “esistenziale”.  La dose potrebbe essere rinforzata, se si aggiungesse che l’unico altro vicino, la Cina, assorbe oltre l’80% delle esportazioni mongole e provvede a quasi il 35% delle sue importazioni. Nonostante questa posizione impossibile, la Mongolia è una vera democrazia, un partner ufficiale della NATO, considera l’UE come un “terzo vicino”, cerca di annodare quanti più legami con l’Occidente asiatico (Giappone e soprattutto Corea del Sud) e ha, appunto, ratificato lo Statuto di Roma. In questo “devo ma non voglio”, o “voglio ma non posso”, i conti non tornano: e l’enclave di democrazia tra Russia e Cina non solo rifiuta  di adempiere all’obbligo di arrestarlo, ma riceve il presidente russo in pompa magna.

Da Ankara si fa invece sapere che la possibile adesione ai BRICS non va a scapito dell’identità di un paese NATO e parte dell’Occidente, ma è piuttosto un’opportunità per ampliare le piattaforme di dialogo e di espansione commerciale, ponendosi in un rapporto privilegiato con grandi mercati. Erdogan è da tempo l’enfant terrible dell’alleanza atlantica, e persegue un’agenda di politica estera e anche di sicurezza impostata su una propria “autonomia strategica”. Nel suo caso, la formula potrebbe essere un “non devo ma voglio e posso”.

Alcuni analisti ricordano, anche giustamente, che i BRICS finora hanno un’identità politica ed economica, per non parlare dei valori delle rispettive società, confusa, e che al di là del ritrovarsi e legittimarsi reciprocamente, finora non hanno mai impostato una vera azione comune. Resta che sedersi al tavolo dei BRICS implica, di fatto, andare alla corte di Pechino, dove si incontra anche Putin.

Il problema, con la Turchia come con la Mongolia, non è tanto che questi paesi vogliono avere il piede in due scarpe, ma che il loro comportamento rende palese un mondo dove si cambiano scarpe di continuo, dove si può camminare anche speditamente con scarpe diverse.

Non solo la bipolarizzazione si è frantumata nel multipolarismo, ma all’interno dei singoli blocchi regna una crescente trasgressività. Accade anche nell’Unione Europea, dove l’Ungheria non è parte dei BRICS ma è una fattiva porta di accesso di interessi cinesi e russi nel nostro continente. E anche negli Stati Uniti, dove alcuni punti cardinali politici comuni a repubblicani e democratici sono ormai superati dall’emergere di divisioni radicalmente opposte di stampo quasi tribale, presenti non solo nella eterodossia di Trump, ma anche nella strada americana, nella stessa società.

Per l’Occidente, o se si preferisce per la comunità delle democrazie, discendono quattro considerazioni:

  1. Se “il mondo è fluido”, e lo è, occorre navigare nelle ambiguità, e anche un paese NATO tra i BRICS può tornare utile, o uno stato dell’Asia centrale che fa il doppio gioco, per opportunismo o obtorto collo. Le diplomazie occidentali, la NATO, l’UE, devono imparare a destreggiarsi con una dose di spregiudicatezza e prendere quanto di buono esiste.
  2. I BRICS più crescono più diluiscono la loro potenziale efficacia di blocco capace di una linea unitaria, divenendo una terza posizione dove si trova di tutto e senza sintesi. La Turchia seduta a quel tavolo, dove già Cina e India si guardano con agende contrapposte (o dove si ritrovano l’Iran e il Brasile…), può essere un fattore di ulteriore debolezza. Ricordiamo che a oggi esiste una banca di sviluppo comune e non molto altro, e che dopo più di dieci anni dal lancio del progetto, la realizzazione di una fibra ottica sottomarina comune è ancora lettera morta. 
  3. A differenza dei BRICS, la comunità delle democrazie deve proporre alleanze fondate su valori e su una visione condivisa della società, con vantaggi effettivi di progresso commerciale e tecnologico e di sicurezza. Certi limiti geografici sono ormai superati e paesi dell’Indo-Pacifico, e non solo, dovrebbero costituirne uno dei centri di propulsione. Ai BRICS andrebbe contrapposta una formula tipo FREED – Freedom, Economy, Efficacy and Democracy.
  4. Infine, l’eterno problema dell’Unione Europea. In un mondo che cambia, come le scelte di Mongolia e Turchia ricordano, l’Europa deve capire che ha un patrimonio politico, militare ed economico enorme, ma sprecato dalle sue persistenti divisioni. Diventasse finalmente matura per essere “una”, capace di una sua autentica “autonomia strategica”, anche a costo di perdere i suoi eretici, l’Europa potrebbe offrire non solo di un modello di vita già invidiato nel mondo, ma anche istituzioni e politiche tali da costituire, nelle sabbie mobili e nel trasformismo globale, quel faro che tanti naviganti cercano.

Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.

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