(Bruxelles) – Eseguendo il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale (CPI), lo scorso marzo le Filippine hanno arrestato Rodrigo Duterte e lo hanno trasferito all’Aia, dove si trova attualmente in detenzione. L’ex sindaco di Davao e poi Presidente è accusato di crimini contro l’umanità nella repressione del narcotraffico, che avrebbe provocato dalle 6.000 vittime ufficiali alle oltre 30.000 secondo alcune organizzazioni dei diritti dell’uomo. Il suo arresto è ancora più significativo considerando che le Filippine, proprio per decisione di Duterte, si erano ritirate dallo Statuto di Roma nel 2019. A oggi le Filippine sono col Burundi il solo paese ad aver lasciato la giurisdizione della Corte – altri due, USA e Russia, hanno ritirato la loro firma, mentre lo Zambia ha sospeso la sua cooperazione; infine, l’Ungheria, ha avviato la sua recessione dal trattato. Tuttavia, a Manila rimane l’obbligo di cooperare con la Corte per il periodo nel quale il paese ne riconosceva la giurisdizione, anni che coprono l’epoca dei crimini di cui Duterte è accusato.
Che l’ex presidente sia stato arrestato e spedito all’Aia più per un regolamento di conti interno che per osservare il diritto internazionale, come accadde anche nel caso di Milosevic, non scalfisce l’autorevolezza della Corte. Anzi, per certi aspetti la rende anche più temibile, e contrariamente a quanto alcuni pensano, la CPI sta attraversando un periodo di crescita, che è marcato non solo dall’adesione da parte dell’Ucraina, ma da passi che solo poco tempo fa sarebbero stati giudicati troppo audaci, come il mandato di arresto verso la dirigenza di una superpotenza membro permanente del Consiglio di Sicurezza, e quella di uno storico alleato dell’Occidente che si voleva piena democrazia. È una crescita che si paga, con le sanzioni di Trump verso la Corte, o con le accuse di “antisemitismo”, e con le difficoltà a mantenere il passo ambizioso della Corte da parte di alcuni Stati: la Mongolia, che con Mosca ha un trattato bilaterale molto stringente e che ne dipende per le forniture energetiche, non ha saputo resistere alla visita di Putin, e ora si ritrova deferita da parte dell’Aia; e l’Ungheria, che accogliendo Netanyahu ha contestualmente annunciato l’uscita dal trattato, avviando una percorso che richiede almeno un anno.
C’è anche l’Italia: dopo il caso Almasri, per il quale la Corte ha avviato una procedura contro il nostro paese, è uscita la notizia che una partecipazione di Putin ai funerali di papa Francesco non ne avrebbe comportato l’arresto, perché il ministro Nordio non ha ancora ritenuto necessario trasmettere il fascicolo alla Procura Generale di Roma affinché venga inoltrato alla Corte d’Appello per renderlo esecutivo. Eppure, non c’è alcuna valutazione discrezionale possibile da parte del governo italiano, e come chiarito dalla sentenza 238/2014 della Corte Costituzionale, gli obblighi derivanti dal diritto internazionale sono vincolanti. In ogni caso l’arresto da parte dell’Italia rimane dovuto, come ha ricordato il segretario generale di “Non c’è pace senza giustizia”, Niccolò Figà Talamanca.
Quanto all’Unione Europea, ha fatto sentire la sua voce quando la Mongolia ha ricevuto Putin, ha preferito invece tenere un profilo più basso nel caso della visita di Netanyahu a Budapest e anche nel caso Almasri e nella mancata trasmissione del mandato d’arresto a Putin da parte del Ministero della Giustizia di Roma. Forse qualcuno a Bruxelles preferisce allineare le istituzioni europee alle tipiche ambiguità italiane, anziché ricordare con forza che la firma e la ratifica dello Statuto di Roma sono una condizione per l’adesione all’UE, e che la campagna per la creazione della Corte e tutto il suo impianto sono di fatto uno dei pochi successi della diplomazia europea, con un ruolo protagonista dell’Italia anche a seguito di chi, quella campagna, la cominciò tra i primissimi – Marco Pannella e il Partito Radicale.
In questa debolezza nel rispettare gli impegni sottoscritti, in questa esitazione a dare voce con forza al diritto internazionale e di farne uno strumento potente di politica estera, non viene scalfita la credibilità della CPI, che anzi, come il caso Duterte dimostra, e a rovescio le stesse sanzioni americane ne suoi confronti, ha un ruolo sempre più assertivo, ma quella dell’Italia e della stessa UE. L’Europa può vivere con le eccezioni che confermano la regola – siano le prevedibili posizioni di Budapest e l’altrettanto noto cerchiobottismo italico – ma, tanto più in un periodo di tale confusione nell’ordine mondiale, non può assecondarle. Pena perdere quel ruolo guida del diritto e dei diritti che si è assegnata, che le da forza e che una parte sempre maggiore del mondo le chiede.
Niccolò Rinaldi dal 1989 al 1991 è responsabile dell’Informazione per le Nazioni Unite in Afghanistan. In seguito, nel 1991, diviene prima consigliere politico e poi, dal 2000, segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo. Nel 2009 è eletto deputato europeo, e diviene vice-presidente dell’Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa (ALDE). Nel 2014, al termine del mandato europeo, resta come funzionario nell’istituzione dove è attualmente Capo Unità Asia, Australia e Nuova Zelanda. Negli ultimi anni ha tenuto su Il Commento Politico la rubrica Lettere da Bruxelles.